15 GRAFEMI

Vasileia Voulgari

11 Gennaio 2019

Comunicato Stampa

 

Venerdì 11 gennaio 2019, alle ore 18, nello spazio C2 di Firenze (via Ugo Foscolo 6) si inaugura la mostra “I 15 Grafemi” di Vasileia Voulgari, un diario dell’anima tessuto su tele con filo, inchiostri cinesi e lapis. Sono questi i tasti che l’artista greca decide di suonare per restituirci i suoi 15 grafemi: 15 racconti astratti dove il passato e il futuro sono scritture a matita, solo il presente è colorato e ci viene raccontato con l'inchiostro.

 

La introducono per l’occasione Irene Ivoi ed Edoardo Malagigi.

La mostra, che resta aperta fino al 31 gennaio, è un viaggio astratto nel quotidiano di una ragazza greca, che vive a Volos, davanti ad un mare irraggiungibile e immensamente azzurro.
Vasileia oltre a scrivere diari su tele, disegna gioielli e in galleria ci saranno dieci sue creazioni, realizzate in esclusiva per questa mostra.

Vasileia Voulgari ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove si è diploma nel 2001. Ha scelto poi di tornare in Grecia dove, da 20 anni, alterna le sue creazioni su tela con quelle dei gioielli. Il suo viaggio nei cieli della Grecia, prima di tornare a Firenze in occasione di questa mostra, è lungo.

 

Vasileia Voulgari     

 

I 15 GRAFEMI 

 

11 – 31 gennaio 2019

 

 

Da lunedì a sabato su appuntamento - Ingresso libero

 

L’artista sarà presente sabato 12 e domenica 13 gennaio dalle ore 16 alle 19

 

Informazioni

 

C2 CONTEMPORANEA2

 

Firenze, via Ugo Foscolo 6

 

Telefono +39 334 7970531

 

e.mail lo-pinto@libero.it www.c2contemporanea2.com

 

https://www.facebook.com/C2contemporanea2-1517671005228163/ https://instagram.com/c2_contemporanea?utm_source=ig_profile_share&igshid=f95he7oyrr23 


CAPOLAVORI GIOVANILI

Olinsky

24 Ottobre 2018

Olinsky – “Capolavori giovanili” 

 

Olinsky, mitico pittore ultracentenario, nato nel lontano 1866 nella Slavonia Occidentale ha acquisito e affinato la propria tecnica pittorica già in età giovanile grazie alla frequentazione del grande Maestro Ivan Popec, il più importante pittore del suo villaggio natio. 

Il Maestro si è ritirato da anni a vita solitaria e da allora il Professore Paolo Sandano ne cura il ricco archivio.

Nella sua lunga vita il Maestro ha partecipato ai movimenti artistici più importanti della storia dell’arte e nell’archivio non mancano le testimonianze delle sue “scorribande” che toccano i più disparati stili pittorici.    

In mostra vengono esposti alcuni paesaggi dipinti su tela e su tavola di medie e piccole dimensioni. Sono opere giovanili in cui l’artista vuole rendere omaggio ai temi della storia dell’arte a lui cari che spaziano dal Rinascimento al Roccocò con il tocco ironico che contraddistingue la sua intera opera. 

II Professor Paolo Sandano, curatore dell’archivio Olinsky, sarà presente all’inaugurazione per illustrare l’opera del maestro.


LEGGERE IL TEMPO

Donata Wenders

3 maggio 2018

 

Il principio di indeterminazione di un punto di fuga.

Sulle fotografie di Donata Wender

 

L’io umano tende a creare qualcosa di immanente ed a lasciare tracce in un universo in espansione. Non di rado si tratta di lampi di genio pensati per l’eternità. Questo tentativo riguarda da sempre anche il processo di ssare un’immagine rappresentativa per il mondo a venire. Dall’inizio del XIX secolo il continuo sviluppo degli strumenti ottici e della tecnica fotomeccanica, come anche gli esperimenti con sostanze chimiche,  definiscono possibilità del tutto nuove per la documentazione dell’individuo e del suo ambiente: fissare in modo duraturo un momento transitorio. Il lungo processo creativo di un’immagine dipinta o disegnata che, definito attraverso capacità manuale e geniale intuizione, contiene infine anche un’interpretazione, viene integrato con il progredito e analitico rendimento di immagine delle macchine fotografiche. Iniziata dalla eliografia di Niépce, la fotografia diventa cronista, ugualmente critica e opportunista, della rivoluzione industriale prima e di quella digitale, poi. Originariamente nata tra i vapori di mercurio e le pellicole di negativi e circondata da una modellazione delicata e morbida, la fotografia è rimasta fino ad oggi un postulato rifugio dell’individuale, a dispetto dell’ambiente digitale e razionale sempre più perfetto. Le fotografie di Donata Wenders si allontanano da questa inequivocabilità orientata verso risultati. Il suo interesse va verso un’altra dimensione delle immagini, lontana dal tormento dell’intimità spinto alla perfezione, che come costante situazione mediale ronza quotidianamente intorno al volto umano. Le sue fotografie colgono ciò che la fisica già sa dall’inizio del XX secolo con il principio di indeterminazione di Heisenberg: la profondità della nostra esistenza non ha luogo in un punto di fuga lineare e calcolabile, bensì nell’avvicinamento ad uno sfocamento di contenuto che muove il pensiero e i sogni in modo ondulato. Circa nello stesso tempo Miguel de Unamuno fa riflettere uno dei suoi protagonisti: “Si, così è la vita: nient’altro che nebbia” Le fotografie di Donata Wenders non seguono uno sguardo analitico che comunica implacabilmente ipotetici contenuti, molto di più descrivono l’elemento situativo di un istante. Come per esempio con una lontananza nebbiosa (Dunstferne - lontananza nebbiosa – è un termine che si trova in una poesia di Richard Dehmel. N.d.T.) la fotografia Time to ink (2015), uno sguardo su due mani che si toccano e che tengono un pennello, comunica un che di contemplativo e di creativo. In Portrait in a Haze (2015) un ritratto femminile riluce delicatamente sullo sfondo lattiginoso – poesia di un momento transitorio. Sempre e ancora la fotografa gioca con nitidezza e sfocatezza, mette a fuoco per esempio inaspettatamente su una tela in primo piano attraverso la quale si può riconoscere il ritratto Ronit I (2015). Altre opere, come Arijana Antunovic (2008), catturano l’osservatore immerso nei pensieri attraverso lo sguardo frontale, chiaro della donna raffigurata e lo riconducono nello spazio-tempo della mostra. Donata Wenders prende con sé l’osservatore in un’onda luminosa che si rifrange dolcemente e lo conduce verso una autentica realtà. L’assenza del punto di fuga e il gioco con la prospettiva è il concetto di molti dei sui quadri e riporta la fotografia al nucleo di un’immagine – alla traccia narrativa di un momento.

 



MOTIVI D'INCERTA RILEVANZA

Marco Ferri

29 Giugno 2017

Lo studio di un artista. Carte in confusione su un tavolo attendono di essere ritrovate, scelte per nuove prove e vecchie adorate sperimentazioni. Pagine che fuggono via da vecchi saggi di storia e si confondono tra fotografie, colle e pennelli. Fogli che giocano a nascondino in attesa di riempirsi di colore.
E’ il preludio delle opere di Marco Ferri che, come un artigiano, sceglie e cura ogni dettaglio dei materiali che fa dialogare l’un con l’altro, fino a fonderli. La stratificazione della carta porta con sé la memoria delle sue storie e la presenza del colore tiene vivo il ricordo leggero di una giovinezza sempre presente. Le opere si vestono di una pelle nuova, giovane ma saggia, i Pre-Ludici in coppia si intendono e si bilanciano. Come un abito d’Arlecchino, ammiccano, sornioni. Come tessere di un mosaico ogni frammento in rilievo, completa e fa parte di un tutto.
L’animo vivace delle opere contraddistingue il lavoro poliedrico di Ferri che spazia fra diversi linguaggi. Resine, carta e vetro si prestano al gioco dell’artista che sperimenta nuove melodie per i suoi temi. Simmetrie meticolose ma non pedanti, moti ondosi, rispondenze equilibrate e dinamiche. Le resine, come corpi vitrei, trattengono la luce per donarla a chi le osserva, nei toni cangianti delle loro sfaccettature, sfumature dell’iride: Belli dentro.
In Ha peso di verso la sovrapposizione di legno, ferro e vetro, evoca memorie di luoghi conosciuti e vissuti: connessioni mnemoniche, olfattive e sensoriali. Storie, tracce, ricordi vivono nei lavori stessi. Così    parte    dello    studio    dell’artista    è    sempre    presente    nelle    opere.
Cambiando il registro stilistico ma mantenendo il fil rouge che lo contraddistingue, Marco Ferri ‘porta in scena’ uno spaccato domestico, accogliente, che conduce chi ne è testimone, in un percorso estetico ed emozionale.
Motivi d’incerta rilevanza, da cui l’artista trae il titolo della mostra, è una vera e propria installazione emotiva che porta chi guarda a doversi relazionare con ogni elemento, instaurando un dialogo personale con ognuno di essi.


L'orMa (Lorenzo Mariani)

Realmente?

31 Maggio 2017

Etimologicamente l’avverbio “realmente” si traduce come “in modo reale”. È infatti la realtà stessa ad essere sotto indagine nelle ultime opere di L’orMa ed è anche immediato lo stupore di fronte a qualcosa di reale che si presenta come impossibile.

Tutto questo rispecchia perfettamente la ricerca di L’orMa, che osservando la realtà e la sua stupefacente ed inafferrabile verità, parte dai materiali naturali e dal loro valore intrinseco e, con minuzioso lavoro di ricodificazione, crea qualcosa di vero, ma che al tempo stesso sembra incompatibile con l’esperienza comune e la domanda ricorrente dello spettatore davanti alle sue opere è: “Realmente?”

All’interno dei nuovi spazi dello Spazio C2 Contemporanea L’orMa presenta una selezione di sui recenti lavori tra i quali: installazioni, opere in ceramica, teche a parete con interventi manuali su essenze vegetali, alcune delle quali appositamente realizzate per questa mostra.

 

L’orMa (Lorenzo Mariani), è nato nel 1985 e vive e lavora a Milano.

Nel 2007 si laurea presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e diventa l’assistente della coppia artistica vedovamazzei.

Entra nel panorama artistico contemporaneo esponendo presso varie gallerie d’arte, enti pubblici e privati e conquista la selezione in vari prestigiosi concorsi d’arte (segnalato al Premio Cairo 2011, vincitore al Premio Cascella, vincitore al Premio Novara).

Nel 2011 gli viene commissionata dalla Regione Lombardia una grande scultura rappresentativa del tema proposto da EXPO 2015 (visibile presso il nuovo complesso di grattacieli sede della Regione).

Artista che spazia dalla pittura tradizionale, alla scultura, all’installazione, agli interventi manuali su fotografia, su foglie ed altre essenze naturali, ed infine all’arte della ceramica, realizzando sempre opere singolari ed originali per il suo taglio visuale, che riescono a sorprendere il fruitore, oltre che per le tematiche, anche per le sue capacità esecutive in sicurezza di tecnica in ogni disciplina e con perfezione realizzativa quasi maniacale.

Presentato per la prima volta a Bologna dalla Galleria Spazio Testoni nel 2011 per la mostra “Default” a cura di Alberto Mattia Martini, poi in altre mostre collettive e personali all’interno e all’esterno della galleria, in Arte Fiera nel 2014 e nel 2016, dove la Giuria gli ha conferito all’unanimità il Premio Euromobil Under 30 alla sua 10° edizione per l’opera Adam and Eve: un intervento manuale su Tragopogon, di cm. 129,5x69,5, realizzato nel gennaio 2016.

Nel novembre 2016 partecipa alla seconda edizione del Premio Art Team Cup 2016 ed è proclamato Vincitore Assoluto e Vincitore Over 30 con l’assegnazione di una mostra personale allo Spazio Arte CUBO Unipol a Bologna in corso fino al 27/05/2017, dove ha riproposto, dopo la prima presentazione in Arte Fiera 2017 per la Galleria Spazio Testoni, il suo grande trittico ispirato al Giardino delle delizie di Bosch in occasione del 500° dalla sua scomparsa, all’interno del quale ha rappresentato i 7 Vizi Capitali con la sua inconfondibile tecnica di intervento manuale su vari tipi di essenze vegetali, accompagnato da quattro installazioni che rappresentano le 4 Virtù Cardinali con un grande pizzo del diametro di circa 2 metri realizzato in polvere di terra a rappresentare la bellezza del mondo in cui viviamo.


TOOLS

Marco degl'Innocenti

18 Marzo 2017


Marco Degl’Innocenti TOOLS galleria C2 FIRENZE- marzo 2017-
Tools, strumenti del lavoro artigiano o contadino, attrezzi di una quotidianità desueta, quasi scomparsa, o elementi di un immaginario deposito sentimentale personale, fissati nella forma plastica più raffinata che Marco Degl’Innocenti qui raccoglie e propone con l’attenzione preziosa dell’artista e la disposizione malinconica e ironica del poeta, che ne certifica lo status di “cari estinti”.
Si tratta di un’installazione site specific con cui Degl’Innocenti fa il suo esordio con una mostra personale che testimonia la necessità di misurarsi in un terreno nuovo, di fare i conti con sé stesso a metà del cammino.
Non è casuale la scelta della Galleria C2, spazio ricavato dal recupero di una vecchia lavanderia a due passi dall’istituto d’arte di Porta Romana dove Marco Degl’Innocenti si è formato e dove è iniziata la sua carriera di artista restauratore che in quasi trent’anni lo ha visto confrontarsi, senza soluzione di continuità, con i grandi scultori rinascimentali e i migliori maestri moderni e contemporanei, passando per Canova. Senza dimenticare il ruolo di consulente alla realizzazione plastica per tutta una serie di artisti che stanno nel parterre de roi dell’arte contemporanea internazionale e non possono prescindere dalla sua grande sapienza delle cose “fatte ad arte”.
Tutto questo non va dimenticato e costituisce una premessa necessaria ma non sufficiente. Premessa per un nuovo inizio, sempre nel territorio della scultura con le caratteristiche della narrazione figurativa.
Una narrazione che, attraverso i vari, preziosi e ironici frammenti racconta la vicenda di un mondo che è scomparso, o sta scomparendo, sotto gli occhi di chi cerca di trattenerne i valori più profondi e più sentiti. E soprattutto di restituirne la sobria bellezza, spesso nascosta nei materiali.
Per quanto appropriato possa essere il riferimento, penso a quel tentativo di catalogazione per frammenti dei sentimenti umani realizzato molti anni fa (quando Marco nasceva) da Goffredo Parise nei suoi Sillabari, (che restano una delle più convincenti testimonianze poetiche della fine di un mondo).
I Sillabari erano il tentativo di trattenere l’idea di un sentimento
“in forma di parole”, ma anche il sapore di un mondo che stava svanendo per sempre.
Ecco, credo che con TOOLS Marco Degl’Innocenti voglia presentare un suo personale sillabario “in forma di scultura” e ricordarci che, se non esiste più, non può più esistere quell’ordine antico, attraverso i frammenti reinterpretati di quell’antico ordine si può ancora usare il linguaggio dell’arte e della bellezza.
Orion è uno dei termini con cui con cui in Grecia si indicava l’apparire della bellezza, in un preciso momento, fatto dinamico, momentaneo, vitale. E’ un aggettivo che ci va di accostare a questi lavori.
Lavori connotati da una grande sapienza e da una preziosità intrinseca che però non hanno in sè nulla di epico, di compiaciuto. Si ricava piuttosto un’intonazione lirica, una nota teneramente ironica, un sentimento malinconico, uno stile sobrio, convincente.
Che la fionda di Marco Degl’Innocenti, magicien de la terre, possa colpire lontano...
Angelo Pauletti,febbraio 2017
Ci piace, per chiudere, accostare al testo due brevi frammenti poetici; uno di John Donne e l’altro di E.E.Cummings che crediamo possano aiutare a capire, il primo il senso di questa mostra, il secondo la poetica di Marco Degli Innocenti.
Una partenza: vietato piangere “Così saremo tu e io, che devo come l’altro piede, correre obliquamente; la tua fermezza rende il mio cerchio perfetto, e mi fa finire, dove io ho avuto inizio.” John Donne “Sempre sia il mio cuore aperto ai piccoli uccelli che sono il segreto del vivere qualsiasi loro canto è meglio del sapere e gli uomini che non li sentono sono vecchi” E.E.Cummings

_

VITA DELLE FORME

ISABELLA NAZZARRI

A cura di Ivan Quaroni

3 Dicembre 2016

       Vita delle forme
        di Ivan Quaroni


“In teaching us to see the visible world afresh, he gives us the illusion of looking into the invisible realms of the mind - if only we know, as Philostratus says, how to use our
eyes.” (Ernst Gombrich, Art and Illusion, 1960)


Che la forma non debba essere considerata come un segno portatore di significato, ma un contenuto essa stessa, lo sosteneva già Henri Focillon nel 1943, anno in cui dava alle stampe le Vie des Formes, uno dei grandi classici della letteratura critica del Novecento.
Nel suo saggio lo studioso affermava che l’opera d’arte esiste solo in quanto forma e che addirittura “la vita è forma, e la forma è [propriamente] il modo della vita”.1 Focillon soprattutto ammoniva il lettore a non confondere la forma con l’immagine e con il segno. “Sempre saremo tentati a cercare nella forma, altri sensi che non siano essa stessa”, scriveva lo storico dell’arte francese, “ed a confondere la nozione di forma con quella di immagine, che implica la rappresentazione d’un oggetto, e soprattutto con quella di segno”, ma, aggiungeva poi, “il segno significa, mentre la forma si significa”.2
Isabella Nazzarri è giunta alle stesse conclusioni dopo un iniziale percorso figurativo, in cui persistevano ancora grumi rappresentativi e narrativi, per quanto declinati in un campionario variegato di alterazioni e deformazioni. Sulla scia di Ernst Gombrich, l’artista toscana deve, infatti, aver compreso che ogni arte ha la sua origine nella mente umana e nelle nostre reazioni al mondo, piuttosto che nel mondo fenomenico. Eppure, nonostante somiglino in qualche modo a quelle dei batteri e dei protozoi, delle amebe e dei parameci, come notavo in precedenza3, le sue forme sono, piuttosto, la trasposizione visiva di costrutti mentali e di stati d’animo.
Le opere di Isabella Nazzarri hanno una struttura schematica simile a quella dei pattern geometrici e delle texture dei tessuti. Le forme sono, infatti, distribuite sulla superficie della carta con una certa regolarità, tanto da produrre un’impressione ornamentale. Tuttavia, l’impatto esornativo si dissolve non appena ci avviciniamo all’opera per osservare la singolarità di tali forme. Forme
1 Henri Focillon, Vita delle forme seguito da Elogio della mano, Einaudi, Torino, 2002, p. 4. 2 Ivi, p. 6. 3 Ivan Quaroni, Life on Mars, Circoloquadro, Milano, 2016, p. 23.
la cui natura biomorfica, lo abbiamo detto, rimanda immediatamente alla complessione di microorganismi come i germi, i bacilli e i microbi, a qualcosa, insomma, che non ha nulla a che vedere con la gradevolezza dei florilegi ornamentali degli arazzi o della carta da parati, ma che piuttosto provoca nell’osservatore una sensazione d’inquietudine.
Dentro l’ordine apparente dei suoi grandi acquarelli, infatti, si annida un ammasso pullulante di figure mobili e guizzanti, di compagini iridescenti e lampeggianti come certi organismi bioluminescenti sotto la cui membrana s’intravede, quasi in filigrana, una sorta di primitivo sistema vascolare o di primaria struttura neurale. Qui, più che mai, riesce comprensibile l’idea di Focillon che la forma sia il modo della vita e che quest’ultima si manifesti innanzitutto nella fattispecie di un vastissimo repertorio morfologico.
Allo stesso tempo, però, le forme possono essere interpretate anche come la traduzione nello spazio di certi movimenti dello spirito. In particolare, gli Innesti di Isabella Nazzarri - che a suo tempo avevo definito come gli anelli di congiunzione tra gli archetipi junghiani e gli organismi semplici che diedero inizio allo sviluppo della vita nell’universo – sono il risultato di un processo di trasposizione sul piano formale e figurale dell’arte di frammenti di un ininterrotto flusso di coscienza.
E in effetti, possono essere considerati come parte di un’unica grande opera, che si evolve attraverso continue metamorfosi e trasformazioni. Non a caso, anche il paradigma classificatorio entro cui l’artista aveva, fino a qualche tempo fa, ingabbiato queste forme mentali, sembra essersi definitivamente dissolto per lasciare campo a una nuova impostazione spaziale. Un’organizzazione in cui la necessità dell’artista di orientare la direzione delle forme (o di bilanciare i pesi e gli ingombri sulla superficie), finisce appunto per produrre una specie di miraggio decorativo e d’illusione ornamentale. Peraltro, proprio Focillon era convinto che l’essenza dell’ornamento consistesse nel suo potersi ridurre alle forme più pure dell’intellegibilità. E in tal senso, dimenticando lo schema dei bestiari fantastici o degli antichi erbari, Nazzarri ha compiuto un’operazione di semplificazione.
Le sue forme liberate sembrano ora muoversi in un campo più vasto e, allo stesso tempo, convergere verso un ipotetico centro spaziale. Soprattutto negli acquarelli più grandi, infatti, si ha la sensazione che la loro distribuzione non sia affatto casuale, ma che anzi segua una logica direzionale, per quanto aleatoria. Ecco perché l’impianto esornativo resta flebile, come un’impressione o un’illusione.
Quello che emerge è, invece, il contrasto tra l’apparente schema d’insieme, statico come ogni impianto decorativo, e il caotico affastellarsi di forme differenti, che trasmettono un senso di pulsante, e insieme perturbante dinamismo. Proprio questa antinomia, questa contraddizione che solo una fertile prassi sperimentale può generare, è uno degli aspetti più interessanti della recente indagine dell’artista.
D’altra parte, per Isabella Nazzarri lo scopo della pittura non è di trasmettere messaggi o di elaborare contenuti, ma semmai di provocare, attraverso il linguaggio visivo, un turbamento, uno scompiglio capace di portare l’osservatore fuori dai suoi abituali schemi cognitivi.
In fondo, la pensava così anche Theodore Adorno, quando nei suoi Minima Moralia affermava che “il compito attuale dell'arte è di introdurre caos nell'ordine”.4

_

SPACE GARDEN

PIOTR LUTYNSKI

MARCIN GIERAT

LORENZO BRUSCI

9 Ottobre 2016

Space Garden è il tentativo di costruire uno spazio multidimensionale, assumendo che non esistono confini fisici. Non ci sono limiti alle possibilità di essere in molteplici luoghi, simultaneamente. Questa affermazione si basa su un'altra assunzione, che il tempo non si dia solo in forma lineare, e il nostro significato di spazio ci permette di raggiungere le aree più distanti dell’Universo. Il risultato è la creazione di un brodo cosmico d’intuizioni, di viventi emozioni e gesti amichevoli, allo scopo di ottenere una chiara primordiale forma costruita, un giardino spaziale
appunto, costituito di oggetti, fotografia e musica creati da Piotr Lutynski, Lorenzo Brusci e Marcin Gierat.

_

DIALOGHI

IVAN DE MENIS

20 Maggio 2016

Quella di Ivan De Menis è una ricerca di matrice linguistica, che si colloca tra pittura e scultura, sempre che abbia ancora senso determinare queste categorie.

Nel suo lavoro la pittura viene superata, nella sua accezione tradizionale, bidimensionale, per giungere a un concetto più ampio, tridimensionale. 

In mostra sono lavori di grandi dimensioni con delle compressioni, in cui il contenuto dell’opera, su tela, viene bloccato dal polistirolo grezzo, in cui l’artista la impacchetta per poi liberarla. A seconda della durata dell’impacchettamento si viene a creare una traccia, una memoria della materia: geometrie lente in cui spazio e tempo si incontrano. 

Nelle opere più piccole è la resina a bloccare. Il tempo è scandito dal materiale stesso, dalle sue peculiarità. Ogni opera è composta da una sorta di stratificazione, come se si trattasse di un vero e proprio imballaggio protettivo. 

L’utilizzo di materiali di natura diversa dai pigmenti ad acqua, ai colori a olio, nella tradizione della pittura, dà vita a uno scontro di matrice fisica. In ogni opera è dinamismo e fissità, in un contrasto continuo che crea un dialogo intenso. Tutto scorre, senza possibilità di arresto come le immagini su uno schermo.

Il colore viene colato con un’operazione che potrebbe apparire frutto di casualità. Così non è. L’artista rimane sempre il regista del tutto. Ogni lavoro viene finalmente sistemato, sgrezzato, ripulito di quanto non viene ritenuto necessario all’insieme. Si giunge ogni volta all’essenza. De Menis è interessato al senso volumetrico, alla lettura prospettica di ascendenza classica di quanto si viene a creare. Determinante è anche quanto si trova sul bordo, le colature, che svelano i diversi passaggi, raccontano i momenti come una sorta di diario pittorico. I lavori sono antitetici a quelli realizzati con metodi industriali da certo Minimalismo. Qui la colatura del colore presenta una sua casualità, che apre un dialogo con chi guarda, che permette di partecipare alla rappresentazione.

L’artista auspica un ordine che sottolinea l’incompletezza, l’imperfezione: la verità non esiste. 

Le sue opere in cui il colore, translucido, opaco, materico, liquido è protagonista richiedono un tempo lungo di osservazione, in controtendenza con la velocità consumistica alla quale siamo abituati.

Nonostante la prima apparenza non esiste una serialità. Ogni lavoro è diverso, racconta una storia propria. La sua è una ricerca in cui sono dei riferimenti di natura autobiografica, in cui l’attesa quotidiana al lavoro, attraverso il colore, la materia in relazione allo spazio, diventano un’esperienza puramente esistenziale. 

Angela Madesani

_

SOLE E GIRASOLE

CARLO FEI

2 Aprile 2016

Carlo Fei è nato a Firenze. Sue opere si trovano in collezioni private e pubbliche: Centro Pecci, Prato. Fondazione per l’arte contemporanea TESECO, Pisa. Palazzo delle Papesse, Siena. Galleria Civica di Modena, Modena.Tra le ultime esposizioni: Biennale di Fotografia di Daegu, Corea 2014. Festival della fotografia di Reggio Emilia, 2014. Asta, Ritratto esposto di Gerhard Richter, Sothebys 2014. Human Shots, Galleria Mimmo Scognamiglio, Milano. 2013. The Artist’s Eye, Lewis Glucksman Gallery, Cork, Irlanda. 

 

LA MOSTRA VERRÀ APERTA DA UNA PRESENTAZIONE DEL PROF. UBALDO FADINI 

"E' una caratteristica-chiave del lavoro artistico complessivo di Carlo Fei muoversi tra una particolare attitudine a vedere, ad affrontare ciò che sembra - ed è quasi sempre - trascurabile e un piano per così dire "impersonale", di critica radicale, in fondo produttivamente e felicemente paradossale, del "soggetto" fotografo/fotografico. Ritorna così, costantemente, l'idea del "no name", del “né più né meno”, dell'essere "fatti di niente", dell'"io non sono io" (per riprendere quel Deleuze che sperimenta la formula decisiva di Rimbaud: "io è un altro"), accompagnata, in "Abracadabra", dall'attenzione nei confronti del tra/scurato, dello "scordato", rispetto a cui si rivendica l'attuazione di un compito fortemente "etico", che consiste nella ri-creazione artistica, in un ridare "parola" che si pretende ininsegnabile e dunque proprio effettualmente riferibile al primato dell’"impersonale"".

 

Ubaldo Fadini

Ubaldo Fadini insegna Filosofia morale all'Università di Firenze. I suoi interessi concernono la "teoria critica" tedesca e alcuni percorsi della filosofia della differenza. Tra i suoi ultimi lavori: "Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo" (Verona, 2013) e "Divenire corpo. Soggetti, ecologie, micropolitiche" (Verona, 2015).

 

_

PIPELINE EXPRESS

La via dei mari interni

Enrico Bianda

Testo di Antonio Sofi

23 Gennaio 2016

Enrico Bianda (Zurigo, 1971), giornalista, è stato inviato della Radio Televisione Svizzera, ha lavorato in tutta l'Europa Orientale, realizzando reportage e inchieste per la radio. Attualmente cura un programma di attualità sulla Rete Due della RSI.
Ha studiato Scienze Politiche a Losanna (CH), con un PhD in Comunicazione e sfera pubblica a Siena. Ha insegnato giornalismo a Scienze Politiche a Firenze per 14 anni. Collabora con la rivista Problemi dell’Informazione e nel 2013 ha scritto, insieme a Carlo Sorrentino, il saggio “Studiare giornalismo” (Carocci).Collabora con l’Espresso e con la rivista on line Stanza251 che ha pubblicato l’ebook fotografico “In movimento”.
Ha iniziato a fotografare una quindicina di anni fa, ed ha esposto alcune sue fotografie allo spazio ZonaB di Sergio Tossi nel 2013.



Il progetto

Pipeline Express
La via dei mari interni

Il petrolio e il gas sono gli strumenti di pressione della politica estera russa di questi ultimi decenni.
E nel disegno complessivo di una nuova egemonia energetica va ridisegnandosi l’insieme delle relazioni economiche e politiche dell'Asia Centrale e di parte dell'Europa Orientale. Georgia e Azerbaijan non sfuggono a queste logiche: sui loro territori passano alcuni oleodotti strategici per gli equilibri europei e mondiali. Tra questi la pipeline Baku-Supsa è tra le più importanti e delicate, visto che parte del suo tracciato passa attraverso territori fragili come l'Ossezia del Sud. Enrico Bianda ha viaggiato lungo il tracciato dell'oleodotto per raccontare le storie di chi vive lungo questa faglia politica ed energetica e ne ha tratto un lungo reportage radiofonico messo in onda dalla Radio Svizzera.
Da questo viaggio l’autore ha tratto anche una serie di fotografie che compongono la mostra Pipeline Express - La via dei mari interni, cui ha aggiunto alcuni scatti realizzati nell’inverno del 2013 sulle coste del Mar Nero.


Scaricate o ascoltate in streaming il documentario audio dal sito

www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/laser/Pipeline-express---Loleodotto-Baku-Supsa-6592732.html

_

QUI ALTROVE

Gianluca Sgherri

3 Dicembre 2015

Contrappunti lirici trapelano dalle opere pittoriche di Gianluca Sgherri, un artista che da tempo ha impostato nel suo percorso creativo un dialogo altalenante tra l’ordinarietà del mondo e la sua intrinseca vanificazione. L’osservatore è invitato a scorgere anche un solo particolare dipinto con singolare perizia e delicatezza, per scoprire continui valichi per lo sguardo, al di là del sensibile, verso un altrove, così da gravitare nell’oltre per cui ogni limite concreto si annulla, ogni elemento oggettivo diventa polisignificante e assume valore soggettivo. Frammenti cosmici navigano liberi da ogni limite spazio temporale, proiezioni interiori tra sonno e veglia, che scorrono come vasi comunicanti tra reale e surreale destabilizzando il riguardante. Oggetti ed aspetti di un paesaggio umano partecipano ad un processo di sublimazione, per cui esorbitano completamente dall’hic et nunc, dalla vita quotidiana, per deragliare al di là dei luoghi consueti, situandosi temporaneamente in una scena diversa che produce effetti visionari. Ogni parametro di riferimento per una collocazione reale si cancella per approdare agli spazi dell’inconscio, nella circolazione continua di un tempo incommensurabile, per cui nel presente convive il passato. Nel continuum si alternano visioni che avanzano nel misterioso, nell’ignoto, nell’enigmatico esito dell’immaginario, perdendo ogni nesso relativo alla rappresentazione veridica del reale. Gianluca percorre un itinerario che pur a distanza di un secolo ormai dalle avanguardie storiche, prosegue sul versante di un’arte della volontà che ha determinato una interruzione di processo nei confronti del criterio imitativo, segnando una ‘frattura’ nei confronti della predilezione della verosimiglianza. 

Oggetti, elementi su cui si fissa l’attenzione del riguardante derivano da stati emozionali, da desideri reconditi, da percezioni che si incontrano con i moti interiori, autentiche occasioni che permettono lo scatto dell’immagine che campeggia sulla tela, come riflesso di una condizione interna. 

Pittura a tocchi leggeri, che mira alla perfezione ed alla vibrazione della visione attimale del sogno, liscia, sottile, delineando presenze prossime ad effetti fantasmatici, situabili tra presenza e assenza, che scorrono su un filo invisibile di carattere emozionale, Opere che esprimono contenuti di coscienza, di un tempo interno, invitando l’osservatore a spaziare con lo sguardo, provando il piacere infinito della lontananza per toccare le fibre dell’indecifrabile, alitare alto nella precarietà della nostra esistenza. Il tentativo di alimentare la nostra finitezza attraverso il desiderio onnipresente per gravitare al di là di prospettive consuete, per sollecitare a riscoprire l’energia dell’immaginazione, al di là di un universo concluso, comporta l’individuazione di sentieri altri e ulteriori per il pensiero divergente o laterale rispetto al sistema costituito, allo schema dato, proiettandosi nella libertà della non dimensione e del non luogo. (Alessandra Scappini).

Gianluca Sgherri è nato a Fucecchio (FI) nel 1962. Finiti gli studi al Liceo artistico e all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dopo alcune esperienze di tipo concettuale/poverista degli anni ottanta, inizia a dipingere ad olio su tavole di piccolo formato. La prima personale si tiene alla Galleria Margiacchi di Arezzo nel 1991. Nel ’95 si trasferisce a Milano; vi si terranno le mostre personali allo Studio d’Arte Cannaviello nel 1994, ‘96, ’99, ’02 e 2012. Espone anche alle Gallerie l’Attico di Roma, In Arco a Torino, Arte 92 a Milano, ItinerariArte a Bari, No Code a Bologna. Tra le partecipazioni a rassegne d’Arte in Italia e all’estero sono da ricordare: “Imprevisto” Castello di Volpaia, Radda in Chianti (SI). Premio Internazionale FIAR. “Prima linea la nuova Arte Italiana” Trevi Flash Art Museum. "Immagini Italiane" Medienmeile am Hafen, Dusseldorf. "Ultime generazioni" XII quadriennale Nazionale d'Arte, Palazzo delle Esposizioni, Roma". “realismo italiano”, Nordstern Allgemeine Versicherung, Colonia. “Arte Italiana ultimi quarant'anni: Pittura iconica" Galleria d'Arte Moderna, Bologna. “Arte Italiana 1968-2007. Pittura “ Palazzo Reale, Milano. Suo opere si trovano in collezioni pubbliche e private, tra cui alla Galleria d’ Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, alla pinacoteca Cesare da Sesto di Sesto Calende e a Palazzo Montecitorio a Roma. Attualmente vive e lavora a Santa Croce sull’Arno.

_

SCULTURE

Antonio Lo Pinto

A cura di Viana Conti

3 Ottobre 2015

La scultura: un porre in opera incorporante di luoghi e con questi un aprire di contrade per un possibile abitare di uomini, per un possibile dimorare delle cose che li attorniano e li riguardano.

Martin Heidegger L’arte e lo spazio/Die Kunst und Der Raum traduzione di Carlo Angelino Il Melangolo, 1979.


L’opera d’arte accade nello spazio inaugurandolo, non occupandolo. È con questa illuminazione che Martin Heidegger legge la modalità creativa della scultura, in rapporto al luogo, come apertura di una contrada. Chi allestisce e chi visita una mostra assiste al dispiegarsi, ogni volta, di uno spazio inedito, in divenire: sono le opere che creano lo spazio che le accoglie, a partire dal quale acquisiscono nuova vitalità. È questa la modalità di lettura che sembra opportuno adottare per la mostra Sculture dell’artista Antonio Lo Pinto (nato nel 1956 a Catania e residente, fin dall’infanzia, a Firenze) in quello spazio d’elezione e di prestigio rappresentato dalla Chiesa e dal Chiostro di Sant’Agostino in Pietrasanta, edificati nel XIV secolo, attualmente sospesi al culto, divenuti ideale sede di accoglienza di internazionali mostre d’arte scultorea.
La mostra di Antonio Lo Pinto, ampia e articolata in un insieme di installazioni scultoree, si snoda, nei suoi aspetti tematici sacrali e quotidiani, nel grande spazio della Chiesa e nelle due sale adiacenti al Chiostro, dette del Capitolo e de’ Putti, aprendo luoghi e dimore, come direbbe Heidegger, a sculture edite ed inedite, ideate e realizzate nell’arco temporale tra il 2000 e il 2015. Ecco materializzarsi, a sinistra, nello spazio del pavimento, cinque inquietanti, abnormi, bulbi oculari sferici, che ci guardano, magnetici, con le loro pupille verdi o brune, al centro dell’iride dorata. In dialogo, a destra, una disseminazione di pillole, iperdimensionate anch’esse, rosa del Portogallo, bianco di Carrara, onice, verde delle Alpi, giallo di Siena e nero Marquinia, mostra la propria natura geologica, non chimica, e quindi aliena dall’inquinare la salute della terra per sanare la malattia, reale o immaginaria, dell’uomo, ma volta ad abitarne il giardino, spo- stando la sua funzione su un terreno altro, spesso ludico, sempre estetico..
Intanto, quattro imponenti vasi, due bianchi e due neri, non cessano di raccontare storie solenni e remote di Dinastie. Procedendo, un’iperdimensionata penna stilografica Mont Blanc, in marmo nero del Belgio e in bronzo, assediata da sparse gocce di inchiostro, apparentemente liquide e lucenti, matericamente marmoree, per un’estensione installativa di oltre quattro metri, riporta lo spettatore agli oggetti d’affezione dell’infanzia, dell’adolescenza, della formazione, materializzando ricordi di regali per le prime tappe della vita di un giovane d’antan, come la prima comunione, la laurea, il primo appuntamento amoroso. Avanzando, si presentano due anelli in bronzo e marmo, da mignolo maschile, modello Chevalier, solitamente con sigilli, cifre nobiliari e stemma del casato, in omaggio agli avi, che qui rinviano alla grandezza della scul- tura classica, greco-romana, e di quella rinascimentale, riportando, in marmo bianco di Carrara, nel primo il rilievo della testa di Antinoo, nel secondo, con riferimento al Michelangelo delle Cappelle Medicee, quella di Giuliano de’ Medici.
Le sei installazioni della Chiesa culminano, di fronte all’altare, con l’iperdimensionata Collana di Perle Nere, disposte in cerchio, come a cingere grandi colonne invisibili di storia, memoria, devozione, bellezza. Queste enormi perle levigate sono di marmo nero di Marquinia, breccia calcarea di etá paleolitica, sedimentata nel periodo della conformazione geologica della crosta terrestre e ricavata dalle cave dei dintorni di Smirne, in Turchia, o di Bilbao, nella Spagna del Nord. La dismisura delle Perle Nere esce dalla proporzione per accedere alla statura di una visione scultorea, concettualmente ideata per delineare e cingere il vuoto, la luce e l’ombra, per sfiorare, con la materia, i bordi dell’immateriale, con il limite della forma il non limite dell’infinito.
Passando al Chiostro, si entra in un ciclo inedito di opere di Antonio Lo Pinto e nella tematica del cibo in sintonia con quella dell’Expo Universale di Milano 2015 - che, materializzando sogni e incubi, icone e ossessioni, mette in scena un’antica tradizione della cucina toscana: quella bistecca, il cui nome viene fatto risalire alla festività di San Lorenzo e alla famiglia dei Medici, quando dei cavalieri inglesi, a cui venne offerta la costola di bue alla brace, la denominarono, nella loro lingua, beef steak. La Sala del Capitolo, infatti, ospita, due sculture in marmo rosso di Francia e bianco di Carrara di una Bistecca e di una Costata appoggiate su antichi taglieri da macelleria, che rinviano, a parete, a due Nature Morte dipinte a olio su tela, in stile fiammingo, improntate all’analogo Iperrealismo delle opere scultoree. Nell’adiacente Sala de’ Putti lo spet- tatore si ritrova a confrontarsi con un’installazione di un grande tavolo da cucina in legno su cui poggiano le sculture di due Tortellini giganti in marmo statuario (cm. 40x30x40); a parete sfilano venticinque Tortellini in bronzo, con inevitabili rimandi erotico-anatomici. Segue, più avanti, un ulteriore tavolo di legno con tortelli adagiati su un rialzato, candido, letto di farina. A interrompere il bianco e nero di questa sala interviene una mini-installazione in bronzo, patinato marrone, di cioccolato Toblerone, il primo cioccolato al latte con mandorle e miele, il cui nome deriva dall’unione del marchio svizzero-bernese Tobler con l’italiano torrone.
La seducente mappa marmorea, lapidea, bronzea, della mostra Sculture di Antonio Lo Pinto allinea cicli di oggetti sacri e profani, aristocratici e quotidiani, come le Dinastie dei vasi marmorei ed i Blister, le archetipiche, cosmiche, Collane di perle nere e le prosaiche Bistecche, le Nature Morte e i Bulbi oculari, i nobiliari anelli Chevalier e i gustosi Tortellini, la penna Mont Blanc e il cioccolato Toblerone, tutto un mondo in cui delizie e ossessioni popolano la mente creativa di un artista realista e visionario insieme!
Antonio Lo Pinto, attivo nel mondo dell’arte dalla metà degli anni Ottanta, non cessa di dislocare altrove oggetti funzionali ad altri contesti, ad altre destinazioni. Muovendosi su un terreno sospeso tra l’epico e il quotidiano, tra il gotico ed il postmoderno, tra il rituale e l’aleatorio, tra il mitico e l’illusorio, l’universo di questo artista ha sempre l’uomo al centro, con i suoi azzardi e le sue disillusioni, le sue utopie celesti e i suoi radicamenti terrestri. Tra la fisicità e la metafisica, tra il reale e il surreale, tra la gravitazione e la leggerezza, la mostra, scaturita dall’operosità dello scultore e dalla pensosità del sognatore, si snoda tra spigoli, punte, curve, sinuosità e la perpendicolarità di vasi contenenti e contenuti in una forma che li deborda e, al tempo stesso, li accoglie. Impegnato tra ideazione ed esecuzione, progetto e oggetto, opera e ambiente, Antonio Lo Pinto pratica simultaneamente la tradizione e l’ innovazione, la classicità e la sperimentazione di nuove forme di materia e pensiero, con esiti di misura e dismisura estetica, che l’osservatore percepisce a livello emotivo e sensoriale.
Così si esprimeva Heidegger nel 1964, in merito alle Teste scolpite da Bernhard Heiliger: «Una testa non è un corpo a cui sono stati aggiunti occhi e orecchie, ma un fenomeno corporeo, contrassegnato dall’essere-al-mondo che guarda e ascolta. Quando l’artista modella una testa, sembra solo riprodurre le superfici visibili; in verità, egli configura ciò che è propriamente invisibile, ossia il modo in cui questa testa guarda nel mondo, il modo in cui soggiorna nell’aperto dello spazio, nel quale viene coinvolta da uomini e cose».
Viana Conti Critica d’arte contemporanea-giornalista

_

THE LIGHT IN ME WEIGHTS A TON

Alisa Margolis, Anike Joyce Sadiq

A cura di Angelika Stepken

29 Settembre 2015

Alisa Margolis, Anike Joyce Sadiq

The Light in me Weighs a ton

Anike Joyce Sadiq e Alisa Margolis sono vincitrici del premio Villa Romana 2015 e vivono entrambe quest’anno a Firenze. La loro pratica artistica, se messa a confronto, è molto diversa: Alisa Margolis è una pittrice e ricrea nelle sue tele un mix esplosivo di diverse tendenze storico-artistiche unito a riferimenti che coglie dal serbatoio di referenze provenienti dai mass media. Anike Joyce Sadiq è una artista multimediale con approccio concettuale che impiega il video e il suo tempo di durata reale (live) in installazioni interattive, per indurre lo spettatore a porsi all'interno dell’immaginare e riflettere sulla sua posizione.

Con l’invito a progettare insieme una mostra a C2, le immagini sacre distribuite nel centro storico di Firenze divengono il punto di partenza della loro collaborazione: le „Madonelle“, piccole edicole a muro affisse agli angoli dei palazzi antichi racchiuse dentro un vetro e una cornice decorativa, Madonne -Tabernacoli – dipinti, immagini, che negli spazi pubblici sono presenti al pari di Graffiti e pubblicità... 

L’interesse di Alisa Margolis risiede nella presenza della pittura negli spazi a margine della strada, al di fuori di chiese e musei. La lastra di vetro che protegge le Madonne, è nel contempo un piano polveroso, che astrae e “offusca” l’immagine. Margolis: „ L’immagine sottostante emerge lentamente come un dipinto di Ad Reinhart o il quadrato nero di Malevich. Questa struttura schermata parla di e sembra creare un collegamento tra lo spirituale nella pittura, sia attraverso l’astrazione che la figurazione.”

Per Anike Joyce Sadiq, la lastra di vetro dei tabernacoli è lo schermo, sul quale lo spazio urbano e la pittura si manifestano insieme. Grazie alla sua natura riflettente, il vetro divisorio diviene il vettore di un immagine reale.

Non soltanto protegge l’oggetto che vi sta dietro, ma soddisfa anche i desideri dello spettatore di fronte alla pittura, di trovare se stesso nell’immagine. Anike Joyce Sadiq: „Portare lo spettatore all’interno dell’immagine e renderlo una parte importante di essa, solleva interrogativi circa la distanza e la prossimità, il regime dello sguardo e le relazioni di percezione “

Anike Joyce Sadiq, nata nel1985 ad Heidelberg, vive e lavora a Stoccarda.
2011 - 2013 Studium Intermediales Gestalten con Discoteca Flaming Star, Staatliche Akademie der Bildenden Künste Stoccarda
2005 - 2011 Staatliche Akademie der Bildenden Künste Stoccarda
Mostre personali (selezione): 2015 You Never Look At Me From The Place From Which I See You, 45cbm – Kunsthalle Baden-Baden / Was glänzt ist für den Augenblick, progetto insieme a Julia Herbrik, Theater Rampe, Stoccarda; 2012 Saatgut – Emblements – Gran, Bahnwärterhaus der Villa Merkel, Galerien der Stadt Esslingen a. N. 

Alisa Margolis, nata nel 1975 a Kiev (Ucraina), vive e lavora a Berlino.
1993 – 1997 Bachelor of Arts, Columbia University, New York,
2009 – 2010 Akademie Schloss Solitude, Stoccarda,
2005 – 2006 Delfina Studio Trust Artist Residency, Londra
2001 – 2003 De Ateliers Fellowship, Amsterdam.
Mostre personali (selezione): 2014The Disappearance, Galerie Judin, Berlin; Gótico, Galerie Wilma Tolksdorf, Francoforte sul Meno; 2012 Sha la-la-la-la, Galerie Reinhard Hauff, Stoccarda; 2011 Theory of Everything, Book Launch, Nolan Judin Gallery, Berlino; 2010 You Are One of A Thousand, Akademie Schloss Solitude, Stoccarda; 2006 Triumph of painting, Saatchi Gallery, Londra

_

CALCOLARE IL CASO

Riccardo Guarneri

A cura di Giovanna Uzzani e Antonio Lo Pinto

30 Giugno 2015


Cari amici di C2,
siamo arrivati a giugno dopo un anno di intenso ma gratificante lavoro.
In questo anno abbiamo avuto il piacere di ospitare e organizzare, insieme a artisti e curatori, nel nostro studio-spazio indipendente, più di sette (7) progetti, e sono qui a ringraziarvi della vostra presenza e del sostegno che ci avete manifestato.
Martedì 30 giugno alle ore 18.00 a C2 ho il piacere di presentare, in collaborazione con la critica Giovanna Uzzani, il progetto Calcolare il caso dell'artista Riccardo Guarneri. É l'ultimo appuntamento di questa stagione e sono orgoglioso di poterlo ospitare qui a C2.
Riccardo Guarneri é un artista che ha partecipato con le sue opere a scrivere pagine importanti sulla pittura italiana da gli anni '60 ad oggi. La coerenza del suo lavoro é straordinaria come la qualità complessiva della sua produzione artistica. Sono molto contento di questa collaborazione e spero di potervi vedere numerosi martedì 30 giugno per ammirare l'opera di un grande Maestro.
Grazie, Antonio Lo Pinto 



"Le carte ritagliate, poi incollate con cura meticolosa, mostrano una pellicola impercettibile di colore liquido, leggerissimo, in strisce e forme gialle e arancio e rosate. Interviene talora un flusso di nuvole colorate,  macchie senza peso, effusioni di acquarello, trafitte da segmenti bianchi, quasi lance di acrilico, con effetti di fluorescenza. L’intera superficie appare come una fonte di luce moderata: la luce immobile di una lampada vista attraverso la carta oleata di un lume. L’intensità della luce dipinta non deriva da una forza cromatica, ma dal fatto che è immersa in una quieta luminosità, quasi penombra. La trama della carta entra in gioco, emette essa pure la sua vibrazione.
Altre carte si staccano con macchie libere e risentite, pagine di diario, fluire di sensazioni, accensioni improvvise dei sensi, abbandono lirico, oltre i divieti dell’intelligenza. E’ il tempo della confidenza, della consapevolezza e del distacco dalle convenienze, nella sintesi nuova delle ricerche passate, solo apparentemente distanti."
GIOVANNA UZZANI



Biografia:

Riccardo Guarneri è nato nel 1933 a Firenze, dove vive e lavora. Dopo una breve stagione informale intraprende dal 1962 una ricerca fondata sul segno e sulla luce, che diventano i suoi principali oggetti di studio, all'interno di un impianto geometrico minimale. Ha esordito all'Aja nel 1960 con la prima mostra personale. Ha partecipato alla Biennale di Venezia del 1966 (con Agostino Bonalumi e Paolo Scheggi), e alla mostra “Weiss auf Weiss” alla Kunstalle di Berna, alla Biennale di Parigi del 1967 nella sezione "Nuove Proposte". Nel 1972 tiene una prima antologica al Westfalischer Kunstverein di Munster; è presente alle Quadriennali di Roma del 1973 e del 1986. Nel 1981 al Palazzo delle Esposizioni di Roma, “Linee della ricerca artistica in Italia 1960-1980”. Nel 1997 alla Kunsthalle di Colonia, “Abstrakte Kunst Italiens '60/'90”. Nel 2007 al Palazzo della Permanente, Milano, “Pittura Analitica anni '70”. Nel 2008 “Pittura Aniconica”, Casa del Mantegna, Mantova. Nel 2011 “Percorsi riscoperti dell'arte italiana - VAF-Stiftung 1947-2010”, Mart Trento e Rovereto. Nel 2000 ha realizzato un mosaico di 24 mq per la Metropolitana di Roma nella stazione Lucio Sestio. Ha insegnato pittura nelle Accademie di Belle Arti di Carrara, Bari, Venezia e Firenze.

_

TAPPEZZERIA OCCIDENTALE CON AUTORITRATTO E SANTI

Ronaldo Fiesoli

A cura di Walter Siti

9 Aprile 2015

Il lavoro proposto nello spazio C2 contemporanea è una riflessione su 30 anni di ricerca - dal 1984 al 2014 - attraverso un percorso che presenta opere di medio e piccolo formato: disegni, progetti e foto, che prevalentemente documentano la rapida trasformazione in atto sul territorio, sia dal punto di vista ambientale sia da quello antropologico.

Si tratta di una “visione” strettamente da occidentale - toscano, europeo - che osserva, valuta il costante declino cui l’occidente, in particolare un’Europa all'apice della maturità, è destinato.
Osservare e comprendere, forse, per proteggersi dal frenetico immobilismo al quale siamo costretti.

Osservatore di un territorio italiano come “discarica”, un luogo dove si sedimentano i detriti del nostro consumo. Un nuovo paesaggio, stravolto, contaminato da usi disinvolti del territorio, con i suoi nuovi abitanti.

L’intera installazione si compone di 40 opere di piccole e medie dimensioni: disegni, acquarelli, tecniche miste etc.., presentate prevalentemente dentro cornici vintage.

Una quadreria, una sorta di tappezzeria protettiva, composta da 25 pezzi, è disposta in alto sulla parete principale nella prima stanza della galleria.
Un autoritratto, sempre inserito in una vecchia cornice, è appeso sulla parete opposta.

Nella  seconda stanza, più piccola, le pareti sono  tappezzate con teli di plastica azzurra; materiale da imballaggio o da cantiere. Appoggiate sul pavimento, addossate alle pareti rivestite, due installazioni composte da 15 opere tecnica mista su foto in bianco e nero, di diversi periodi.

_

PROGETTO ICARO

Gianni Caruso

A cura di Viana Conti

14 Maggio 2015

Gianni Caruso                                                                                                       Immaginare lo Spazio Scrivere il Corpo                                                                                                                  

                                                                                                                                    Poiesis Aisthesis Synaisthesis       

                                                                                        Et je me crée d'un trait de plume 

                                                                      Maitre du Monde, 

                                                                      Homme illimité.


                                                                    Pierre Albert-Birot

Il Progetto Icaro dell’artista Gianni Caruso si configura come una sua modalità in progress di dare immagini allo spazio, non cessando di scrivere le risonanze del corpo a livello poietico, estetico, sinestetico. La sua densità concettuale, nata nei primi anni Sessanta, cresciuta nel clima dell’Arte Povera italiana, della Conceptual e della Minimal Art americane, di un certo Espressionismo pittorico europeo, apre uno spazio speculativo nel divenire della sua opera, sia essa pittura, scultura, installazione, regia, scenografia, video, fotografia, scrittura. La complessità del suo lavoro nasce da una fenomenologia dell’immaginazione, come potrebbe suggerire Gaston Bachelard in La Poétique de l’Espace. Può accadere, e difatti accade, che, nella rêverie meridiana, lo spirito di questo artista, profondamente mediterraneo, metta in moto un’onda di pensiero in viaggio verso un lido immaginario.  Come dimenticare la sua nascita a Dekameré, in Etiopia, il suo approdo e frequentazione del liceo a Palermo, (dans mon île, avrà occasione di dire), quindi la sua formazione all’Accademia Albertina di Torino, città in cui vive e lavora, per poi ricercare ancora estasi mediterranee sulle rive del Mar Ligure. È in quella fase detta ipnagogica, sospesa tra la veglia e il sonno, densa di echi, sonorità, affioramenti di sensazioni, che Gianni Caruso, nel suo Progetto Icaro, cristallizza un significato per poi ricoprirlo di piume, facendone il corpo di un’immagine immaginata. 

Erano pagine poco di libro e troppo d’artista… quelle a parete, di papier mâché, in cui la carta, intessuta di piume bianche, che affiorano dall’impasto, tautologicamente, scrive se stessa in quanto penna. Deprivato di narrazione, che non sia quella, bilingue, del riporto delle note tipografiche, si presenta in mostra, su un leggio, Il libro di Icaro, 1982: un libro d’artista, aperto, iperdimensionato, morbidamente addossato ad una debordante, inquietante, coltre di piume di struzzo nere. Sono in bianco e nero le fotografie, a parete, del ciclo intitolato Linosa-dans mon île, 1975, in cui sfilano, attraverso una finestra aperta, il ricamo d’antan di una tenda bianca, un ritaglio di paesaggio, all’esterno una cesta di vimini ricolma di frutti, un ragazzo, un’adolescente intenta a suonare il flauto barocco nella sua stanza. La quotidianità, la casa, le aperture delle finestre, i nascondimenti dei cassetti, degli armadi, la suppellettile domestica, ritornano nell’immaginario di Gianni Caruso, come calore e colore dei ricordi, nella quiete meridiana. Gaston Bachelard ha scritto che l’artista manifesta, tramite epifanie semantiche, materiche, formali, come mettiamo radici giorno per giorno in un angolo del mondo. 

Il percorso seguito dalla messa in opera di un suo lavoro non è dissimile da una creazione poetica.  L’opera d’arte visuale, di Gianni Caruso, sembra, infatti, condividere un’anima letteraria. Sul piano musicale, è, innegabilmente, permeata da una sonorità latente, donde la condizione della sinestesia. Nel risalimento alla superficie sensibile, l’immagine, la forma, il colore, la materia, l’oggettualità, hanno toccato il fondo della psiche dell’artista. È un fondo di mondi arcaici e arcadici, bucolici e mitici, spesso di segno femminile, in cui l’affioramento di un dettaglio pittorico, miniaturizzato, alla maniera di uno scudo araldico, rinvia ad un processo di mise en abyme. Questo sguardo nell’abisso recupera voli dell’immaginario onirico, che la mano restituisce, formalmente, dipinti ad olio, come virtuali cammei, ora ovali ora tondi, dell’arte proto-manierista, rinascimentale, rococò, o ancora della Scuola di Fontainebleau. Sono autentici D’après, racchiusi in trasparenti teche di perspex, contornati da cinture di odorosi, efflorescenti, licheni, che, a rendere il dedalo delle percezioni materiali e immateriali, sensoriali e visionarie, insinuate nei meandri del cervello umano, riscrivono, in una mappa, l’intervento diretto della Natura nelle mediazioni culturali del Mito: ne deriva l’emblematico titolo di Labirinti. 

Lo spazio speculativo in cui Gianni Caruso, più compiutamente, mette in atto la sua Poiesis è l’installazione del Progetto Icaro: su un tavolo di legno naturale, la nivea formella rettangolare di cera d’api porta al centro una riga di bianche piume , infilate come morbida, alitante, criniera; nella video-performance, visibile in loop, la candela accesa, dentro una bugia d’argilla, fa colare ripetutamente la goccia di cera liquida sul braccio dell’artista, fino a ricoprirlo, nell’iterazione di un suo gesto, di piume, come un’ala d’angelo.  Gianni Caruso, non cessando di divenire angelo, cosa, persona, sogno, visione, proiezione, cristallizza immagini nello spazio, inaugura iscrizioni nel corpo, mettendo a contatto la pelle con il fuoco, con la cera, con la piuma, per quell’inevitabile volo nell’immensità interiore. È ancora Bachelard che parla del viaggio dell’uomo immobile, le voyage de l’homme immobile nello spazio dell’immensité intime. Diventa una pratica, in Caruso, quella di immaginare l’immagine, spaziare lo spazio o anche immaginare lo spazio spaziando l’immagine, altre volte speziandola, esoticamente, lasciando riaffiorare profumati fantasmi infantili, provenienti dalle sue memorie d’Africa. Si inaugura una dinamica dello spazio, nell’opera di Gianni Caruso, in  cui la grandezza si miniaturizza, la linearità si labirintizza, la profondità affiora, il cielo e la terra rispecchiandosi, si ribaltano l’uno nell’altro.                                                     

Viana Conti                                                                                                                                                Genova, 15 aprile 2015