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Se la copia necessita di progettazione, che dire allora dell'originale?
Il progetto che Fabio Cresci presenta nello spazio C2 si dispiega lungo una riflessione sullo stato dei rapporti tra l'arte e la natura, tra l'artificio e la realtà delle cose. La risposta alla lunga domanda retorica che costituisce il titolo dell'installazione non lascia dubbi su una certa ristrettezza di vedute, e nonostante questo apre uno spiraglio sulla possibilità dell'arte di rinnovare lo sguardo, interrogandosi invece di assentire.
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Lo spazio C2Contemporanea2 a Firenze in Via Ugo Foscolo 6, ha il piacere di presentare nei propri spazi la personale di Caroline Le Méhauté COSE INVISIBILI, in collaborazione con la Galleria Spazio Testoni di Bologna, che ha proposto suoi lavori per la prima volta in Italia nel 2013 ed in Arte Fiera 2014.
Questa giovane artista francese, che attualmente vive e lavora a Bruxelles, ha già al suo attivo prestigiose esposizioni e residenze internazionali in diversi paesi europei.
Il titolo COSE INVISIBILI, attribuito dall’artista stessa al corpus di opere proposte in questa mostra, racchiude in sé il messaggio che Caroline Le Méhauté vuole comunicare con il suo lavoro: l’invito ad osservare con attenzione, curiosità e fantasia, ciò che ci circonda, ciò che vediamo e ciò che non possiamo vedere.
Tutte le sue opere, il cui titolo è spesso preceduto dal sostantivo Négociation, perché secondo l’artista la fruizione di un’opera d’arte necessita di una disponibilità allo scambio reciproco di emozioni e di sensazioni suscitate dall’opera stessa al fruitore e viceversa, si pongono al limite tra ciò che percepiamo visivamente e ciò che ci fanno immaginare e ci trasportano in un mondo che sappiamo reale, ma che spesso non riusciamo a vedere o a sentire, perché ci dobbiamo fermare ad osservare e ad ascoltare attentamente ciò che ci circonda per coglierne l’essenza. L’urgenza della nostra esistenza molto spesso per noi sovrasta l’esistenza dello spazio in cui viviamo e della natura che ci ospita. Molte cose ci sfuggono, o peggio, le trascuriamo e le ignoriamo di proposito, perché non siamo in grado di rinunciare ai nostri impulsi, ai nostri istinti, che ci sovrastano e ci assillano quotidianamente, portandoci a dimenticare l’essenzialità della nostra vita, del nostro pianeta e dell’universo che lo contiene.
Le opere di Caroline Le Méhauté ci mostrano, secondo la sua poetica, anche quello che possiamo soltanto immaginare che possa trovarsi al centro della terra, il suo respiro silenzioso, come nell’operaNégociacion 57, Grow grow grow, un cumulo di polvere di noce di cocco che silenziosamente e misteriosamente respira e ci fa comprendere che la vita è ovunque, anche nelle cose apparentemente inanimate.
L’opera Négociacion 38, De la coulée – l’angle, è una piccola colata di cera celeste attraverso la quale Caroline ci induce a guardare anche nei piccoli angoli per scoprire mondi e colori meravigliosi creati ad esempio dallo scivolamento dei grandi ghiacciai Islandesi, che al contatto con la superficie del mare creano armoniose creste di sale azzurro.
Con l’installazione Négociacion 31, Prendre l’air, una cascata di leggerissime spugne marine colorate con inchiostro nero fluttuano leggere nell’aria ad ogni nostro passaggio.
Attraverso le sue opere possiamo lasciar scorrere liberamente la nostra fantasia e lasciarci trasportare lontano nell’universo, dal quale sono arrivate sino a noi misteriose rocce meteoritiche, oppure delle strane macchine ricoperte di polvere di noce di cocco che attraversate da lucenti barre di alluminio sono orientate su traiettorie oblique. Ed infine, dai suoi disegni della serie Land, dipinti con colori acquerellati che Caroline Le Méhauté realizza da sola frantumando pietre dure, possiamo cogliere le dolci armonie cromatiche che le forze della natura riescono a creare, rendendo così visibili ai nostri occhi…. COSE INVISIBILI.
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Le Corbusier e Lucien Hervé, un incontro di sguardi
“Penso che un architetto debba essere innanzitutto un pensatore”
Le Corbusier (1911)
L'insostenibile leggerezza del calcestruzzo immerso nel sole indiano di Chandigarh, attraversa la carta ai sali d'argento con fenditure di luce quasi pura. Il cemento armato, come in una tela
realizzata a colpi di spatola, si arrende, in tutta la propria rudezza, al fluire delle diagonali che imperversano ovunque, sia nel corpo delle architetture sia nella danza della luce.
È questo ritmo serrato e intimo a fornire il tratto fondante di un incontro tra l'architettura di Le Corbusier e la fotografia di Lucien Hervé. I due s'incontrano nel 1949, sul piano inclinato di
un modernismo che mette a frutto la ricerca delle avanguardie storiche e pensa al futuro attraverso una libertà d'intuizione che non nega, ma rafforza, un sistema di codici più ampio. Con i suoi
studi anti-accademici e onnivori, Le Corbusier rappresenta la figura dell'architetto “armato”, del pensatore costruttore che scrive almeno quanto disegna e dipinge almeno quanto progetta. Hervé,
con le sue peregrinazioni tra l'alta moda (è disegnatore a Parigi) la politica, la fotografia di reportage e la scrittura, è a suo modo un uomo di acuto ingegno. I due guardano al mondo in
maniere simili, aperte. Nel corso degli anni Cinquanta il sodalizio tra i due si gioca proprio su questo sguardo che li accomuna.
Saper fotografare l'architettura significa raccontarla in quella dimensione spaziale che proprio alla fotografia è preclusa: la terza dimensione, la profondità. Una vera sfida, che Hervé vince.
Nell'opera di Le Corbusier vi si aggiunge anche una quarta dimensione, una dimensione emotiva, sentimentale e percettiva. La sua architettura è sistematica, ma vibrante: ruota attorno all'uomo.
La sfida dell'epoca assunta e decrittata dall'archistar ante litteram è quella “utopica” di democratizzare il comfort, il benessere, la bellezza. In una parola: l'architettura. Essa è, in questo
senso, la disciplina principale che riunisce le altre arti e che legandosi all'urbanistica vivifica la tradizione millenaria del pensiero idealistico e politico della città ideale (da Campanella
a Tommaso Moro, solo per stare tra i moderni). Le Corbusier progetta Chandigarh come sunto della sua filosofia architettonica e urbanistica. La città nuova sarà la capitale del Punjab indiano,
voluta dal primo ministro Jawâharlâl Nehrû, il quale la desidera così: “una città nuova, simbolo della libertà dell'India, liberata dalle tradizione e dal passato; una città espressione della
fiducia della nazione nel suo avvenire”. Hervé vi passerà due volte e la fotograferà con uno stile che la critica riconosce come legato al costruttivismo e al post-cubismo. In verità, le foto qui
esposte potrebbero essere riprese direttamente da un film fondativo dell'estetica espressionista nel cinema tedesco dei primi anni del XX secolo. Si tratta di “Metropolis”, film epocale di Fritz
Lang che ritrae la città del futuro come un meccanismo fatale, un Moloch architettonicamente avveniristico che ingurgita uomini ridotti a schiavi. Il film di Lang, così come altri suoi
capolavori, primo fra tutti “Il gabinetto del dottor Caligaris”, è giocato sulle diagonali più che sulle regolarità di ascisse e ordinate, alle quali la nostra visione è abituata. I tagli di luce
sono netti e potenti. Nelle foto di Hervé queste caratteristiche appaiono in modo marcato ed assumono il compito di guidare l'occhio verso una percezione inconsueta ed una dimensione emotiva
avvolgente, conturbante, piena di pace ma anche metafisica. Ciò non poteva lasciare Le Corbusier indifferente, essendo la vibrazione dello spazio un elemento, quasi mistico, da lui ostinatamente
ricercato.
In generale si può dire che la “città ideale”, di cui già Platone parla ne “La Repubblica”, e che diventerà un leitmotiv millenario, non viene fuori soltanto dal progetto dell'architetto, né
soltanto dall'idea dell'urbanista: forse essa assume la propria consistenza proprio dentro il ritratto moderno eseguito per “sommi” capi, che la fotografia è capace di farne quando assume su di
sé la responsabilità del racconto, della sensazione, trasformando gli elementi architettonici in idee, visioni, sentimenti. Hervé lo ha fatto e Le Corbusier lo ha eletto a suo fotografo fino al
1965, permettendo al fotografo ungherese di costruire un archivio di 20mila negativi che lo rendono uno dei testimoni più importanti dell'architettura di Le Corbusier e dello spirito del
tempo.
Nicola Davide Angerame
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Charlotte Schnabl, tra i piú promettenti giovani artisti austriaci, attualmente risiede a Parigi grazie al premio Artists in Residence 2014, dopo essersi aggiudicata nel 2013 il
prestigioso premio Start Stipendium che il Governo austriaco riserva ogni anno a 10 artisti.
In occasione della sua prima mostra in Italia (oltre che in Austria Charlotte Schnabl ha esposto piú volte a Bruxelles), presenta un lavoro sul marmo, il materiale che piú l'ha colpita nel
suo viaggio a Firenze lo scorso anno. Marmo è anche storia e quindi tempo: servono millenni perché si formi, un mese impiega lei per fare un disegno, solo un attimo per scattare una foto... Il
lavoro di Charlotte è quello del tempo lento, della riflessione.
Riflessione in primo luogo sulla 'traccia' che la sua matita lascia sul foglio quando disegna il marmo. Tracce sono anche le scie delle stelle cadenti, o ciò che si va cercando quando si insegue
un evaso, o i segni che un sentimento lascia su un volto ... Tracce che hanno il ritmo delle strofe di una poesia, lievi ma al tempo stesso decise, dove il disegno ha la forza di
un'incisione.
In altri casi la riflessione è sull'effetto del vento sul marmo (Nord, Sud, Est, Ovest), dove la pesantezza del marmo contrasta con la leggerezza del vento che soffia via le venature.
Infine quasi un gioco con marmo bianco e marmo nero (Traccia1 e Traccia 2) dove numeri e lettere danno una straordinaria concretezza scientifica al lavoro che sembra di essere davanti a due
blocchi di marmo, ma è un disegno!
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Jane McAdam Freud
In the Mould of the Fathers
Il rapporto con suo padre Lucian, uno dei più grandi pittori del XX secolo, e con il bisnonno Sigmund, padre della psicoanalisi, è sempre stato per Jane McAdam Freud una relazione di vicinanza
ambigua, che si frantuma inaspettatamente all'età di otto anni a causa della brusca separazione dei suoi genitori, Katherine McAdam e Lucian Freud. Per 23 anni, Jane non vede il padre, mentre il
bisnonno le viene “precluso” dalla ferma volontà della madre di elidere il cognome Freud dai nomi dei suoi quattro figli, rimuovendo così la presenza di una identità (quella del ramo paterno) che
Jane riscoprirà dopo essersi affermata come artista, e precisamente a partire dal premio che riceve dalla città di Londra nel 1992.
Divenuta scultrice e medaglista di successo, Jane non abbandona le altre discipline artistiche, con le quali “elabora” questo rapporto con gli avi, con la psicoanalisi e con l'arte. L'immagine,
più delle parole, può svelare il desiderio, la mancanza, la rimozione, e l'impulsività della nostra vita cosciente ed inconscia. Disegnare e scolpire diventano un linguaggio primario, un lavoro
che “mette in opera” quei meccanismi e quel modus operandi della psiche, che Sigmund Freud ha analizzato attraverso il potere della parola.
Dopo gli studi appassionati al Saint Martin College e alla Royale Academy di Londra, Jane ritrova le sue radici dal nuovo incontro con il padre. Da qui nasce una relazione intensa e profonda, ma
senza compiacimenti o patetismo. Si tratta di un incontro tra due artisti fatti e finiti, anche se appartenenti a generazioni diverse. L'affetto, che è stato rimosso, può tornare ad agire e ad
esprimersi nel linguaggio dell'arte. Lucian ammira il lavoro della figlia e le chiede di insegnargli a scolpire. Jane ama quel padre schivo e intenso, al quale chiede, come massimo gesto d'amore,
di poterlo ritrarre. Il disegno diventa il modo per tornare ad appropriarsi del volto paterno. Lucian glielo consentirà verso la fine della sua vita, poco prima che di spegnersi a fine luglio
2011. Prima è la pittura unica l'urgenza della sua vita. Questa mostra, come dimostra il titolo, affronta il tema che l'artista espone in forma di conferenza al Congresso dedicato all'arte e alla
psicoanalisi: un tema in cui l'eredità spirituale delle generazioni precedenti viene paragonato al “calco”, termine concernente la scultura.
Interessante è la presentazione in prima mondiale dell'installazione site specific creata per lo spazio di C2: “Torre della disapprovazione”. A partire da un tema “archetipico” e religioso come
quello della Torre di Babele, l'artista inglese erige una struttura alta, larga e profonda circa quattro metri, utilizzando materiali di uso comune e da costruzione. “La torre – dice l'artista -
crea uno spazio fragile e imponente che mi ha ricordato la Torre dei folli costruita a Vienna nel Settecento e divenuta l'emblema della reclusione psichiatrica”. Usando sale e sabbia di quarzo
nero, da adagiare dentro la torre, il pubblico è chiamato a porsi in relazione con l'opera, dovendo scegliere che tipo di spazio “occupare” e come farlo. Questa “ritualità” impercettibile è
pensata per coinvolgere il visitatore dentro una scelta e una presa di consapevolezza ulteriore. La “Torre della Disapprovazione”, nel richiamarsi a quella di Babele, diventa metafora delle
diverse lingue che ciascuno serba in se stesso. Lingue che, come spiega Sigmund Freud, sono parlate da noi e parlano di noi, ma nella reciproca distanza. Il linguaggio degli istinti, delle
pulsioni e dei sentimenti primari sembra difficilmente decifrabile per il linguaggio della ragione, chiaro e logico, che pure ci appartiene. Il linguaggio delle emozioni partecipa in modo
bizzarro al linguaggio del sogno. Molte persone vivono dentro di noi, molti colloqui si tengono e molte lingue straniere si parlano. Così la nostra identità si perde e si ritrova in un movimento
continuo di traduzione delle lingue che ci attraversano e delle eredità che ci “modellano”. In questo gioco di “calchi” e di “lingue” siamo chiamati a navigare, in cerca di porti sicuri.
Nicola Davide Angerame
Mostra in collaborazione con Whitelabs Milano
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C2 CONTEMPORANEA 2 di Antonio Lo Pinto
F [R] A C T U S
Alberto Zanchetta
Che cosa sia in verità la pittura nessuno è ancora riuscito a spiegarlo. Qualcuno parla di soggetti, altri di tecnica
o attitudine, ma la pittura è l’una e le altre cose, e qualcosa di più, e di oltre.
A noi è concesso farla e guardarla,
ciò nonostante la pittura resta ancor oggi qualcosa di ineffabile. 19 giugno - 20 luglio 2012
Della pittura Lucio Pozzi ne ha fatto una questione personale, di concetto, di fondo e di campo. Pozzi è un vero “incantatore di pennelli” perché riesce a far fare loro tutto ciò che lui
vuole. Non solo: Pozzi è anche un abile prestigiatore, manipola la pittura come meglio gli aggrada, può addirittura smaterializzarla per farla riapparire
altrove. E ancora: Pozzi è un funambolo che tiene sulla corda la sua musa, in bilico tra l’essere simile eppur diversa da se stessa, tutte le volte, come se fosse sempre la prima volta.
Che la pittura sia dura a morire è un dato ormai assodato. Lo steso Pozzi ammette di averne sentito refertare il decesso almeno cinque vwoltew,inwcin.qcu2e dceocadni dtievemrsep.Moa
arnazicnhéeraid2ur.sci aol rumolo di fraudolento anatomopatologo, l’artista ha scelto d’esserne uno strenuo divulgatore, se non addirittura un filosofo (per quella sua capacità di ri- pensarne
il tegumento, così come fatto in questa mostra, che ridefinisce sia la Monochrome Malerei sia le shaped canvases). Stando alla legge biogenetica di Ernst Haeckel: in un breve decorso si specchia
tutta l’evoluzione di una stessa stirpe. A questa biologia raddensata non è indifferente né esente la pittura, che anzi ne perpetua il processo filogenetico, riuscendo in alcuni – seppur rari –
casi a condensarlo nella breve esistenza di un solo pittore. Uno di questi è Lucio Pozzi. O forse è stato lo stesso artista a rivivere la storia millenaria della pittura, tutta in una volta e
in un’unica vita, affidandosi esclusivamente alle sue forze?
Pozzi è un poeta del frammento, un cantore del simbolo (che per restare tale non deve mai essere ricomposto ma preservato nella sua disarticolazione). Lo dimostra la necessità di delocare e
ricollocare la pittura, di asportarla o reinnestarla continuamente. Per comprendere questo effetto di disambientazione dobbiamo ricorrere alla teoria di Alfred Wegener, basata sulla deriva dei
continenti: se le coste dei continenti combaciano lasciando supporre l’esistenza di una pangea, è lecito supporre che anche la pittura in origine fosse una, coesa, indissolubile. Nel corso dei
secoli ha però iniziato a sfaldarsi, finendo per disgregarsi in tanti pezzi; ma la sua genesi è sempre la stessa, e a essa è necessario ricollegarsi guardando un quadro – qualsiasi, di
chiunque – perché un dipinto ne evoca altri, uno dopo l’altro, all’infinito, fino a restituirci l’impressione della sua atavica plenitudine e finitudine. Non sfugge a questa concezione la
deflagrazione cuneiforme di Pozzi, che nelle sue schegge ci obbliga a rivivere il corso della pittura in presa diretta. Hic et nunc.
Or dunque, l’unicità del concetto di quadro da appendere a parete è un retaggio obsoleto se dato per scontato.
Da bidimensionale la pittura diventa sempre più ambientale, non si limita a creare uno spazio: lo occupa in modo invasivo, finanche pervasivo. Guardando le opere di Pozzi si potrebbe essere
tratti in inganno, nel senso che l’aspetto costruzionista di questi dipinti è in realtà un virtuoso esercizio decostruzionista. Si prenda ad esempio lo scotch di carta; solitamente è usato per
delimitare aree da dipingere, evitando così di sbavarne i perimetri, qui però non è un semplice strumento funzionale, è addirittura sostanziale. Pozzi rende ogni strappo (alla regola)
soggetto tecno-poetico dell’opera – ad libitum e in modo libidinoso per lo sguardo.
Che cosa sia la pittura non siamo stati in grado di comprenderlo neppure in questa occasione, forse perché nessuno potrà mai esplicarlo, neanche in futuro. Per certo Lucio Pozzi ne ha fatto
esperienza in strictu sensu e in extenso in oltre mezzo secolo di vita[le attività].Volendo dirla altrimenti: se neppure lui riesce a spiegarci la pittura (può soltanto di-mostrarcela) è vero
anche che quest’ultima sa con certezza chi sia Lucio Pozzi. E questo, in definita, è un dato di fatto.
diversa da se stessa, tutte le volte, come se fosse sempre la prima volta.
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More than a million people, most of them from the United States,
clog Chatroulette’s servers daily.To “next” someone has become a common transitive verb.
The NewYorker
Chatroulette è una videochat che, più di altre, spinge gli utenti a dare libero sfogo ai propri istinti più nascosti. Chiunque sia in possesso di una webcam, una volta effettuato l’accesso,
viene catapultato nella realtà di un’altra persona scelta in modo completamente casuale e può decidere se guardarla, chattarci o semplicemente “scartarla”.
Siti come Chatroulette si sono diffusi nel web a macchia d’olio, in varie forme e sfumature, e hanno dato vita a una nuova tribù globale i cui membri trovano in questo sistema di relazioni usa e
getta un modo nuovo e più semplice di stabilire un contatto, insultare qualcuno, adularlo o averci rapporti sessuali.
Da osservatori esterni, in genere, la prima sensazione è quella di essere finiti in un girone infernale dove il voyeurismo e il narcisismo di cui si nutre la nuova era dei “social” network
trovano la loro massima espressione. A uno sguardo più attento, tuttavia, la composizione di questa tribù si rivela molto più eterogenea.Al suo interno trovano spazio persone che usano la
chat-room per condividere sentimenti e stati d’animo confessabili solo a colui che non si incontrerà mai: piangere, ridere, esaltarsi, rendere esplicite le proprie debolezze o miserie. Le
pulsioni degli avventori - la necessità di spiare l’erba del vicino e di ostentare la propria, di eccellere in qualcosa, di sentirsi accettati, amati, attraenti, il fatto di avere un posto,
un’isola dove non dover rendere conto di niente a nessuno - sono in realtà bisogni che, in misura diversa, accomunano ognuno di noi.
Al di là degli spesso indicibili atteggiamenti dei singoli utenti, Chatroulette è un fenomeno sociale planetario figlio di un’epoca caratterizzata da perdita di identità, alienazione e
appiattimento dei patrimoni culturali, e pertanto da leggere nella sua complessità.
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C2 CONTEMPORANEA 2 di Antonio Lo Pinto
Steamutoid ?
Ci sono tre modi di entrare nel mondo estetico dello scultore
Gian Marco Lamuraglia, Firenze
(Ginevra 1966): 1) Orientarsi nel grande contenitore della Storia dell’Arte Moderna cercando riferimenti. In
questo senso potremmo trovarne in un certo Surrealismo o nel Nouveau Realisme, 19 giugno - 20 luglio 2012
nella storia degli assemblaggi di oggettistica eterogenea che dà forma a qualche cosa d’altro,
nel nostro caso “teste” , teste di animali improbabili: draghi(?), tigri(?), tori(?)... forse e forse no. Potremmo scomodare addirittura Picasso, ma solo quello della “testa di capra”
ricavata dalla sella e dal manubrio di una bicicletta, che ha influenzato buona parte della
scultura del Novecento. Potremmo indagare sulle figure antropomorfe delle tele di Max Ernst. Ma tutto questo non basta a spiegare il fenomeno estetico delle opere di Lamuraglia.
2) Considerare due riferimenti, due definizioni che l’autore stesso ci suggerisce:
a) Steampunk:“filone di narrativa fantastico-fantascientifica che introduce una tecnologia anacronistica all’interno di un’ambientazione storica nell’Ottocento e in particolare nella Londra
vittoriana dei libri di Conan Doyle e H. G. Wells”.“Un modo per descrivere l’atmosfera steampunk è riassunto nello slogan:‘come sarebbe stato il passato se il futuro fosse accaduto
prima?’.
b) Mutoid Waste Company: gruppo di scultori e performer fondato da Joe Rush a metà degli anni ottanta , specializzati nell’organizzare rave party illegali a Londra e diventati famosi per le
gigantesche sculture saldate e per i bizzarri e avanguardisti riadattamenti degli edifici in disuso nei quali tenevano i loro party, di recente approdati in Italia nei pressi di Santarcangelo di
Romagna dove hanno fondato un“villaggio degli scarti” chiamato Mutonia.
3) Dimenticare tutto quello sopra detto e avvicinarsi a queste sculture-istallazioni.Avvicinarsi non spiritualmente, nè emotivamente, e neppure concettualmente, ma avvicinarsi proprio
fisicamente nel senso di avanzare con i nostri occhi a 15 cm dall’opera,osservare attentamente e domandarsi:“ Cosa sto vedendo ?, cos’è quell’oggetto che sto osservando ?” Un rubinetto, dei
chiodi, una mascella di cavallo, un teschio di daino, una vanga, una zappa, un forcone, una rete metallica, un tubo di ferro, del filo spinato, uno sperone che non punge ma afferra, dei freni di
bicicletta, dei morsetti, dei denti di elefante, ecc... Osservare attentamente e poi chiedersi:“Ma come si può con questi oggetti realizzare una realtà più vera e più intensa della realtà
stessa? Come è possibile costruire un prodotto che racchiude in sè tanta forza, tanta personalità, tanta energia?” E’ possibile, è l’Arte, è la capacità dell’Arte di sorprenderci e di farci
girare la testa, quando dietro c’è un artista con una straordinaria manualità e con le qualità visionarie e immaginifiche come quelle di Gian Marco Lamuraglia.
Firenze 08/01/2014 Antonio Lo Pinto
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Una nuova piccola selezione di immagini, riferite ad un unico brevissimo arco temporale e ad un unico luogo geografico. Ma come sempre per Stefano Rovai, il luogo fisico si sgretola e si annulla
per assumere consistenza di luogo inesplorato dello spirito, scoperta improvvisa e apparentemente occasionale di uno stato d'animo dettato dalla forza della percezione visiva. Stavolta sono
persone che, in un contesto naturale determinante per l'autore, passano inconsapevoli davanti a uno sguardo che non vuole frugare nella loro intimità domenicale, ma esprimere al contrario
il filo ipersensibile e fragilissimo del precario e del fugace. La nebbia gradualmente calata sulla mattina estiva nasconde luoghi e persone, sfuma i contorni, avvolge le presenze rendendole
sempre meno definite fino all'impercettibile, senza mai annullarle.
Scattate su una spiaggia di Bar Harbour, Maine nell'agosto 2010, le 20 fotografie esposte in mostra sono estrapolate dal volume "Uncertain shapes", con un testo poetico di James Bradburne,
stampato in edizione limitata di 250 copie numerate.
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Le prime 24 ore… dopo la catastrofe è il titolo del progetto espositivo che l’architetto Claudio Nardi e l’artista Antonio Lo Pinto presentano presso lo Studio C2 per la nuova stagione espositiva 2013-2014. Un progetto – installazione che riflette la condizione di precarietà dell’essere umano colpito da una catastrofe (inondazione, terremoto,siccità, incendio, tzunami, frana..)
Le prime 24 ore… dopo la catastrofe quando ancora gli aiuti tardano ad arrivare, quando tutto intorno è distruzione e desolazione, quando i cellulari non funzionano e le comunicazioni sono interrotte, quando possiamo contare solo sull’aiuto delle nostre mani e della volontà di sopravvivere e di creare un rifugio per passare la prima notte…dopo la catastrofe, quanto, cosa, come noi uomini contemporanei sapremmo, in stato di emergenza, fare…? Per esempio costruire un riparo, una capanna… Non quella del Barone Rampante, nè quella dell’infanzia, quando giocavamo agli Indiani, non la capanna dello Zio Tom o tutte le capanne della letteratura d’avventura, Robinson Crusoe in testa; ma la capanna - rifugio che nelle prime 24 ore dobbiamo costruire con i materiali di fortuna raccolti intorno a noi per poter trascorrere la prima notte al riparo quando tutto intorno è distruzione.
L’intenzione non è stata quella di costruire un “modello”, bensì di materializzare un’esigenza possibile di un evento probabile, poiché ogni anno continue catastrofi, naturali e non, colpiscono a macchia di leopardo il nostro pianeta . Qui si vuole indagare le potenzialità dell’uomo contemporaneo di fronte alla necessità di costruirsi un rifugio con gli strumenti della disperazione, con la creatività dettata dall’emergenza, superando la cultura della dipendenza e dell’assistenza. Una fuga dell’immaginazione ma anche una realtà possibile in un possibile scenario.
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Apparent rotation / a scenic work
by Giuliano Serafini
In one of the finest books in contemporary literature - Le Roi des Aulnes [The Erl-King] by Michel Tournier – the hero is shown a gyroscope: “It is the key to the absolute”, he is
told,“having the power to escape the motion of the earth. And just for this reason, it seems to turn. In reality instead, we are spinning around it ...What you feel in your hands is the
immobility of the gyroscope opposed by the rotation of the earth in which you are entrained”. Scientifically speaking, apparent rotation does not exist. There exists only stasis, apparent
immobility. Of both paradoxes – which are really only one - Léon Foucault with his pendulum has given, as we know, the ultimate demonstration.
Artistically speaking, things are different. Speculation becomes intuition, always, nor could it be otherwise. To the point of granting the artist – and this is certainly the case of Marco
Bagnoli - unlimited immunity to traverse all the practical and metaphysical categories of the spirit without feeling responsible to the world; without owing it anything. Gratuitous act par
excellence, and entirely useless, art can propose an epistemology without proofs. At the same time, however, it can move in analogical parallel to science,whose conquests it often proclaims in
some reflected manner (as with the Cubists and Futurists, spurious prophets of Freud and Einstein). If science, like religion, is by definition dogmatic, then art will be relativistic.
Paradoxically then, it has good chances of becoming once again the forerunner of future scientific themes, now that computer technology has begun to short-circuit reality and virtuality.
Through empathy that is both mental and mystical, Bagnoli has always operated alongside the hermeneutical processes of science, aware that his field of action remains that of the hypothesis, the
empirical visionary, the insinuation of uncertainties there where we could expect truth, achievements to be definitively consigned to mankind. A Wanderer artist by instinct and vocation, Bagnoli
is the simulator of obscure laws of physics. He is an agnostic scientist who does not assume the veracity of his cognitive research, but
“demonstrates” it in mythopoeic manner. To science he leaves the part of the Stone Guest, the passive yet vigil presence, ready to step in if needed.
And so it is with Apparent Rotation, the video by Matteo Frittelli that forms part of this scenic work, documenting the event presented by Bagnoli in 2011 at the Hoepli Planetarium in Milan,
curated by Nicoletta Pallini.
The geographic orientation that is for Bagnoli a ritual of initiation tracing a circular path, attempts here the vaster scale of the astronomical dimension. Here the cardinal points prefigured by
the quincunx pattern, according to the mathematical mysticism of the Pythagoreans, are indicated by four fishing-rods set soaring in space by the artist, now become a cosmic fisherman.
In Bagnoli’s creative evolution this is a new archetype, as was the celestial archer of the axis mundi, the Arabian phoenix, the seven sleepers, the fire-balloon, the shadow and the anamorphosis,
all themes harking back to the primal motif of direction, of the centre, the margin and their reversibility, in Cartesian accord with the axioms I X You, Space X Time: Tables of the Laws of
sorts, that sanction and simultaneously negate the principle of alterity.
A fisher of stars, as has been said; in this case, of the Leonidas comets streaking out of the sidereal abyss to announce the autumn season. The artist raises his fishing-rods to join them in
alchemistic combination with a jewel whose vertebral structure is inspired by the ancient sextant of the Polynesian mariners. But this is only a mise-en-scène of orientation. In reality, as
written
in the Sefer Hechaloth of the Kabbalah, there exist no physical directions to be taken – neither up nor down, east nor west, inside nor outside, “because in the cosmos everything is moving”. Only
symbols, then, can orient us, can show us the way. In the scenic work we are watching, the physical presence of the artist, standing between the event projected by the video and the great
transparent sheet on which he will improvise a drawing, becomes a further station in this secular liturgy encompassing all of his research. The artist becomes the filter between the completed
work and the nascent work whose invisible trace he is marking. The time of his ongoing action is that of the video, of action that has elapsed.When the light goes out, there appears against the
background the fateful sign of the red band, the incontrovertible “trademark” of Bagnoli’s work, emblem of a beginning on which everything
converges and beyond which it will be impossible to venture.
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“Le ragioni dello spazio” è il titolo di una mostra-intervento in cui l'opera non è un “oggetto” preesistente allo spazio ma nasce dal suo ascolto. Non si tratta di installare un
dipinto, o una scultura, dentro un luogo dedito alla contemplazione estetica. Si tratta innanzitutto di ascoltare una voce, un sospiro, una razionalità e una forza. Questo fascio di identità
rappresentano in parte ciò che lo “spazio” è, nella sua essenza più profonda, secondo Filippo Manzini (Firenze, 1975. Vive e lavora tra Empoli e Los Angeles). Egli porta la scultura,
l'installazione e il disegno ad grado elementare, dove la rarefazione della materia apre inediti scenari dentro un l'ascolto delle forme, delle luci e delle emozioni geometriche che lo spazio gli
suscita. Operando secondo le regole di quello che potremmo definire come un “minimalismo lirico”, Manzini costruisce i suoi interventi materici in dialogo con lo spazio puro, con la sua essenza
corporea. Gli aspetti culturali o storici di un luogo diventano per Manzini talvolta utili, quando ne hanno influenzato lo spazio e il proprio volume formale, dando avvio al processo
creativo.
Manzini possiede una sensibilità spiccata per la “corporeità” effimera dello spazio. Un angolo, un'ombra o una variazione di luce gli bastano per entrare dentro un discorso nel quale le opere
giocano il ruolo di catalizzatori, di suoni, di eco e suggestioni che vengono riportati non alla ricerca insensibile delle forme pure a priori, ma un attento scandagliamento delle emozioni
geometriche che l'occhio dell'artista gode a ricercare, producendo a sua volta visioni materiche.
Queste sono, a loro volta, delle presenze che assumono una loro autonomia. Il cubo bianco per lui non è mai soltanto un contenitore neutrale ma un campo aperto di infinite possibilità dentro cui
cogliere gli aspetti più “effimeri”, leggeri ed invisibili ad un occhio comune, spesso abituato a leggere lo spazio come “luogo” e quindi come una dimensione prettamente “antropologica” ed
“ergonomica” (fatta a misura d'uomo).
Manzini è l'alternativa a ciò: lui dà voce alle ragioni dello spazio puro e lo fa con installazioni che sono “anti- sculturee”, lontane dal voler imporre una forma ad una materia informe, che in
fondo è il senso della scultura classicamente intesa. La trasformazione delle cose, e del mondo, ha un carattere molto più libero che segue una progettualità giocata sul dialogo con lo spazio e
con il tempo, attivato nell'atto del costruire e subito abbandonato: in questo senso l'anti-scultura di Manzini riflette la anti-monumentalità di un atteggiamento volto a non trattenere il tempo,
a non lasciare ai posteri un'affermazione estetica perentoria ma a giocare sull'equilibrio offerto da un sistema di forze in trazione reciproca che si scontrano fino a raggiungere una stabilità.
Anche se talvolta appaiono esili, queste installazioni mostrano e dimostrano una grande forza strutturale, capace di aprire lo spazio attorno a loro e di chiamare in causa, volendo, anche un
dialogo a distanza con una certa architettura.
Nicola Davide Angerame.
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SENZA
I tre artisti riuniti da Giuliano Serafini nella mostra che si intitola “Senza” – Raffaele Di Vaia. Franco Menicagli e Stefano Tondo – operano in qualche modo un intervento di sottrazione sul
lavoro già fatto. Lo rielaborano cioè attraverso mezzi espressivi che puntano tutto sullo specifico sensoriale – luce, ombra, trasparenza, specularità, movimento – insieme al fattore
spazio-temporale necessario all’evento visivo di realizzarsi e allo spettatore di averne la percezione.
Se Di Vaia “riscrive”a grafite i fotogrammi del video su una sorta di propria fuga interiore per affidare all’effetto cangiante che ne deriva la loro decifrazione retinica, Menicagli
sottrae il suo lavoro a una verifica diretta per farcelo intravedere allo stato di incorporea silhoutte metamorfica all’interno del suo contenitore. Tondo, infine, ripropone il tema museale
dell’autoritratto d’artista evidenziandone l’implicita ambiguità in un gioco di riflessione teoricamente illimitata dove chi osserva diventa necessariamente parte in causa.
Si tratta in sintesi di una comune operazione di “smontaggio” degli elementi strutturali dell’opera e del loro trasferimento in una diversa sfera visiva, là dove la percezione diventa esperienza
tanto imprevedibile quanto rivelatrice. Ma anche di una testimonianza del relativismo e dello scetticismo che connota la filosofia estetica del dopo post-moderno: quando coè, secondo le profezie
di guru laici e confessionali, ci sarà spazio solo per lo spirituale. Come peraltro, ed è Baudrillard ad auspicarlo, spirituale dovrà essere il XXI secolo se vorrà sopravvivere a se stesso. Che è
condizione tanto inevitabile e fatalistica da farci adottare in surrogato la spiritualità analogica delle tecnoscienze informatiche. (G.S.)
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PASTIS
Poetica della semplicità: le cose comuni rivelano la straordinarietà della realtà nella loro ricombinazione.
Gli output Pastis sono poesie laiche dell’immanenza, preziosi intarsi che si rifiutano di soggiacere ad una visione banale e mostrano attraverso una particolare messa-in-scena, sequenza, lo
straordinario disseminato nel quotidiano.
Una capacità di viaggiare attraverso le cose nell’agilità del pensiero (musica, montaggio, oggetti) che tutto sfiora senza appiattirsi sulle cose stesse ma esaltandone sensualità, unicità e
umorismo.
La forza profonda della quotidianità si appropria definitivamente di quell’energia necessaria per stravolgerne la banalità di percezione e per ricaricarne di profondità le prospettive, seppur in
chiave leggera.
Questa visione abbatte le barriere tra cultura e quotidiano, tra espressioni spontanee e fenomeni più istituzionalizzati, tra pubblico e privato, tra soggettività e socialità.
Con questo stile di pensiero, l’arte, il fantastico, si conciliano con le cose semplici del vivere: così se ne riscopre la straordinarietà perché guardate con occhi diversi ed in una prospettiva
(o montaggio) differente.
Una visione, uno strumento di visione sostanziale per affrontare la sfida della complessità e della banalità dei tempi a venire.
PASTIS
Simplicity of poetry: common things reveal the extraordinariness of reality through their recombination
Pastis outputs are laic poems of immanence, precious inlays refusing banal visions, showing the extraordinariness of every day life through peculiar stagings or frames.
The ability of wandering through things with the agility of thought (music, editing, objects) which touches everything, without evening out, but rather enhancing their sensuality, uniqueness and
humour.
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Progetto espositivo Canoni Relitti Regole dell'artista Antonio Lo Pinto ultima mostra personale presso lo Spazio C2 Contemporanea2 del 22 dicembre 2012. Riflessione su Canoni estetici della scultura classica, Geometrie e strumenti di applicazione dei progetti, Rapporto tra spazio e proporzione.
Tre lavori recenti prodotti dal 2004 al 2012 che indagano il mondo della geometria, della scultura, dello spazio, attraverso l'uso dei materiali come il bronzo, il marmo, il legno. Forte impatto estetico, raffinatezza ed eleganza nell'uso dei materiali e dei loro accostamenti. Per una visione fortemente concettuale.
Foto a cura di Nicola Borrani
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Almacén
1.
Lo spagnolo almacén è parola di origine araba - gli Arabi rimasero in Spagna per quasi otto secoli, e precisamente dalla primavera del 711 quando l’esercito di Ṭāriq ibn Ziyad, wali berbero
di Tangeri, sbarcò sotto la roccia che da allora porta il suo nome, Jabal Ṭāriq, Gibilterra, fino alla resa di Granada, il 2 gennaio del 1492, quando la città cedette all’assedio del
corpo di spedizione guidato da Ferdinando II, re di Aragona e coniuge di Isabella regina di Castiglia, e questo evento, che mise fine all’occupazione araba in Europa, si dette circa nove
mesi prima della scoperta dell’America, e il mondo prese tutta un’altra piega. Almacén dunque deriva dall’arabo ispanico almahzan o al majzan, a sua volta proveniente dall’arabo
classico mahzan o majzan il cui significato è deposito.
Le prime due definizioni che la Real Academia de la Lengua Española da ad almacén sono le seguenti:
“(1)Edificio o local donde se depositan géneros de cualquier especie, generalmente mercancías.
(2)Local donde los géneros en él existentes se venden, por lo común, al por mayor.”
Va rilevato inoltre che il termine spagnolo indica in particolare un luogo dove vengono immagazzinati materiali che non possono esser considerati come materie prime, quindi prodotti semilavorati
e prodotti finiti in attesa di esser trasferiti all’anello successivo della catena di distribuzione. Infine può designare sia un deposito di oggetti e materiali da imballaggio, che di pezzi
di manutenzione e di ricambio.
Da qui le funzioni principali di un almacén sono quelle del ricevimento, dello stoccaggio, del ritiro, della spedizione e della gestione di un inventario a cui corrisponde un sistema di
identificazione degli spazi assegnati a ciascun oggetto e materiale.
2.
Fran Bobadilla è nato nel 1975 a Lugo in Galizia ed è arrivato in Italia dieci anni fa stabilendosi prima a Roma, quindi a Bologna e infine dal 2008 a Sesto Fiorentino. E’ un pittore.
In quanto tale la sua pittura intercetta due traiettorie.
Una è quella di cui potremmo individuare gli inizi nella seconda metà degli anni 50 del secolo scorso, se di inizi si possa parlare, che mi sembrerebbe piuttosto trattarsi di un gusto e di una
pratica, ambedue ampiamenti diffusi in tutta l’area occidentale e nei territori da questa dipendenti in particolare per quanto riguarda l’arte, ma non solo, pratica e gusto di diretta derivazione
surrealistica, dopo la contrapposizione, a volte estrema, che aveva caratterizzato l’arte del Secondo Dopoguerra fra Astrattismo, da una parte e Figurazione, dall’altra.
In Italia ad esempio si avrà una corrente di chiara ascendenza surrealista che si dota dell’etichetta di Nuova Figurazione. Ma fenomeni analoghi si manifestano in tutta Europa, ma non solo:
dall’Inghilterra alla Grecia, dal Belgio alla penisola iberica, dal Nord al Sudamerica. E’ come se il mondo si sottraesse ad una rappresentazione unitaria e si rendesse visibile per
frammenti, in cui le distinzioni fra reale e immaginario, fantastico e documentale, veglia e sogno, memoria e prefigurazione di desideri e di paure, si facessero labili e incerte e
tutto trovasse alla fine una sorta di ricomposizione estetica sulla superficie della pittura.
Come se all’arte dura della denuncia seguisse un’arte consolatoria, o isterico/schizofrenica, della fuga. Questo almeno nella maggior parte dei casi, con qualche straordinaria e lancinante
eccezione: penso alla virulenza storicistica di un Francis Bacon, al parossismo anti-astratto di un Philip Guston, alla visionarietà fuori registro di un Howard Hodgkin. La pittura di Bobadilla
su questa traiettoria si colloca su un asse per così dire buonista, dove tuttavia non mancano incursioni inquietanti.
Questo si deve all’altra traiettoria che Bobadilla intercetta, e che è quella di una certa grafica che in particolare in Spagna si manifesta dopo la morte di Franco e il ripristino della
democrazia. L’entusiasmo contagioso della movida trova fra i suoi maggiori canali di espressione tutte le forme delle sottoculture giovanili spettacolari, che allora, e per la prima volta
in quel contesto, esplodono con clamoroso vigore, ma anche nel cinema, nella moda, nel design, e, appunto, nella grafica, tenendo in questo caso ben presente il dettato glorioso degli antichi
maestri, da Picasso a Miro. Una grafica farraginosa dove l’estetica del collage e quella dei graffiti metropolitani, la gestualità più violenta e subitanea e la voluta mancanza di controllo in
favore dell’immediatezza emozionale, configurano pagine di irruente e disordinato impatto.
L’arte di Bobadilla su questo incrocio si imposta. E, vedremo dopo, non si tratta solo di pittura.
3.
Di Edoardo Casini so poco. Nato a San Giovanni Valdarno nel 1980, è anche lui pittore. Nel 2011 con Bobadilla da inizio al progetto ROSSOCULO in cui tentano l’azzardo di realizzare dipinti a
quattro mani mantenendo ciascuno la propria cifra distintiva e limitandosi ad integrarne forme e motivi all’interno dello stesso quadro.
4.
La loro collaborazione va oltre quando anche Casini interviene in una ulteriore modalità di lavoro intrapresa da Bobadilla a partire dal 2010: la realizzazione di mobili.
Si tratta alla fine di bricolage. Il materiale attraverso cui i mobili sono assemblati proviene tutto da una sorta di quotidiana ricerca e soprattutto scoperta – Picasso usava dire che lui non
ricercava, trovava – di oggetti abbandonati vicino ai cassonetti dell’immondizia delle aree urbanizzate o in improvvisate e temporanee discariche ai margini delle città. Sono gli scarti del
consumismo, della perdita di memoria, del degrado culturale che affligge il tempo in cui viviamo, che tracima tutto quanto viene travolto dall’onda montante dell’obsolescenza e della progressiva
perdita di funzione. Relitti di un ripetuto naufragio, culturale prima di tutto, rischiano la totale sparizione, la dissolvenza ultima nel nulla dalla cui originale inconsistenza erano usciti
proprio per arginarla. Al loro recupero, in tempi diversi, hanno provveduto altre pratiche costruttive, anche nobili dal bricolage surrealista all’anti design, altre mode, prima fra tutte quella
della rivalutazione del kitsch attraverso il camp.
Nel loro caso tuttavia non prevale tanto il feticismo che dominava le prime, né il paradossale sarcastico che aveva affetto le altre. Si tratta piuttosto di una accentuazione/traduzione di quel
che era già apparso nella pittura, di Bobadilla in particolare, di cui ho trattato sopra, e che definirei come un gusto, nel senso positivo che questo termine può assumere. Un gusto, della cui
formazione ho tracciato sopra una sorta di genealogia, ma anche nutrito della realtà di un presente, minoritaria più che minore, aliena ai clamori che lo assiepano, come dispiegata in una sorta
di oasi di silenzio dove filtrano le memorie e si accendono eco sottili di quanto va nascendo e vive nel proprio tepore, come di quanto non è mai nato, pur avendo potuto farlo, sotto il glamour
arido e smemorato del Grande Mondo. Occuperanno lo spazio che sarà loro assegnato da chi ne entrerà in possesso – sono destinati ad essere oggetti di arredo – con indulgenza mediterranea, più che
imporsi per una loro sostanziale, o apparente, estraneità.
5.
In occasione di Almacén troveranno una temporanea collocazione nello spazio che Antonio Lo Pinto ha aperto sotto il nome di C2, in quello che resta il suo studio “per presentare progetti
sull'arte contemporanea ospitando i lavori di artisti e i progetti espositivi di curatori e critici d'arte allo scopo di creare relazioni”.
Una mostra in forma di almacén.
Pier Luigi Tazzi
Korat, agosto 2012.
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Guardando questa serie di fotografie di Stefano Giusti ci si convince di guardare attraverso l’occhio di un architetto; un architetto che materialmente tiene in mano la macchina fotografica.
Viene alla mente il lavoro di un pittore, di un architetto e di uno scrittore: De Chirico, Italo Calvino, e Louis Kahn.
Come i dipinti di De Chirico, queste fotografie catturano la memoria di luoghi che benché privi di vita umana, come le rovine del passato, sono lontani dall’essere senza vita. Ti portano nello
spazio per fare si che che tu li sperimenti come se tu stesso ti trovassi in quei luoghi.
Così come descrive Italo Calvino nel suo libro “Città Invisibili”, le tracce del passato delineano i corridoi e sono tenute nelle ombre e la luce per rendere possibile ascoltare le voci
sussurranti degli abitanti di quei luoghi fino allora abbandonati.
Così come l’architettura di Louis Kahn gioca con la luce e l’ombra portando all’astrazione eleganza e bellezza persino la struttura più decadente.
Attraverso l’obiettivo, l’artista Stefano Giusti porta il passato a dignità attuale, così come riesce a trasportare noi verso il passato per riflettere sulle sue indimenticabili
testimonianze.
Evelyn McFarlane
Stefano Giusti nato a Firenze nel '62 dove vive e lavora come fotografo professionista
www.giustistefano.it
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Piazza dei Miracoli è la nuova installazione luminosa di Fabrizio Corneli, presentata per la prima volta al pubblico nello spazio del C2 di Antonio Lo Pinto.
L’idea di partenza di questa opera di Corneli, frutto delle sue recenti ricerche, è la moltiplicazione di un elemento di base - in questo caso un intarsio del pavimento della piazza pisana - attraverso tre specchi che la luce sovrappone, incastrando le forme geometriche in maniera assolutamente precisa una sull’altra, fino a formare un sistema geometrico che viene proiettato sul pavimento.
Rispetto alle opere precedenti Piazza dei Miracoli è un lavoro nuovo sia per la tecnica con cui è stato realizzato, sia per l’effetto che l’artista riesce a ottenere. Dopo mesi di studio, calcoli matematici e pazienti sperimentazioni, Corneli ha progettato e costruito, con la consueta precisione, una affascinante ‘scatola magica’, una sorta di caleidoscopio che proietta la sua luce sul pavimento.
Questa volta l’emozione non è data dalla magia con cui la luce accarezza le lievissime lamine di metallo e rivela su una parete bianca un disegno che sulle prime ci sembra confuso… poi ci appare improvviso un volto di donna, una scultura antica, una scritta. Qui ci rapisce il gioco in cui l’occhio si perde alla ricerca delle forme che l’una dopo l’altra emergono dal grigliato arabeggiante sul pavimento. Corneli con un calcolo incredibilmente perfetto riesce creare un fascio di luce che cattura il nostro occhio e lo guida alla scoperta di un cerchio, un rombo, un triangolo, che si susseguono senza fine in un sorprendente gioco di luci e ombre.
Fabrizio Corneli è homo faber: progetta, sperimenta e costruisce interamente con le sue mani ogni lavoro saldando il metallo nel suo studio, quasi una bottega di elettricista, anzi di fabbro. Di qui il duplice fascino delle sue opere che da un lato hanno la levità delle ombre, dall’altro la matericità del metallo. Le enigmatiche scatole che generano la luce portano le tracce della paziente lavorazione, ma anche dei calcoli matematici e ottici dell’artista, lasciando la leggerezza e la semplicità dell’opera finita.
In mostra anche una serie di multipli in rame di Custodi della luce e un'opere in vetro sabbiato Cretto, Guscio d’uovo e Nuvole
Fabrizio Corneli
Biografia
Fabrizio Corneli è nato a Firenze nel 1958 dove vive e lavora. Ha al suo attivo numerose mostre personali in tutto il mondo. In Giappone ha esposto al Tokyo Metropolitan Museum of Photography ed ha realizzato una grande installazione pubblica a Kobe; il Kunstverein Graftschaft Bentheim di Neunhaus in Germania gli ha dedicato nel 1993 una mostra antologica.
In Italia ha esposto presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma, ha realizzato la scultura Grande estruso per il parco della collezione Gori presso Villa Celle (PT) ed un suo lavoro è stato acquisito dalla Galleria d'Arte Moderna di Bologna. Nel 2000 ha realizzato nella zona archeologica del Circo Massimo a Roma la prima installazione luminosa ambientale Twinlights e nello stesso anno ha realizzato l'installazione permanente "SAinT" nell'abside della chiesa romanica di Sant'Andrea in Tontoli a Prato. Presso il Centro per L’Arte Contemporanea Luigi Pecci ha inaugurato rencentementel’installazione luminosa Pelle di Luce, attualmente in mostra presso la sede milanese del Museo Pecci.
Silvia Cangioli
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Italia Metafisica
Nel nuovissimo spazio accogliente e luminoso del C2, Antonio Lo Pinto ospita la mostra del fotografo italo-americano George Tatge. Italia Metafisica, un viaggio alla
ricerca delle tracce che l'uomo ha lasciato nel tempo sul territorio italiano attraverso l'architettura, la sua creazione più monumentale e duratura.
Articolata in tre sezioni, la mostra ha come fil rouge il rapporto tra passato e presente. Nella prima parte i monumenti antichi, ricordo della classicità, campeggiano maestosi ma sempre
dialogando con il mondo di oggi. Nella seconda è la geometria delle architetture contemporanee che si scontra talora con l'antico, talora con la sua stessa possibilità di sopavvivenza. Nella
terza prendono il sopravvento costruzioni che declinano una forte precarietà, tema molto caro al fotografo.
George Tatge riesce magicamente a far convivere passato e presente nelle sue immagini così ricche di particolari,, di sfumature, di effetti straordinari di luce (Ara Pacis, 2008), di
ombre morbide (Livorno, 2010), ora incredibilmente profonde (Autoritratto con cancello, 2008).
E' un genere di fotografia che richiede tempi lunghissimi: la ricerca attenta dell'inquadratura, l'attesa della luce giusta, la profondità di osservazione da grande artista sono il metodo di
lavoro di Tatge che usa una macchina di grande formato e segue personalmente la stampa di ogni immagine.
Tatge ripercorre la storia dell'uomo attraverso l'architettura e la luce è il mezzo per mettere in scena il racconto in cui gli edifici sono gli attori. E' significativa l'analogia con il
percorso del padre dell'architettura moderna, Le Corbusier, che forse proprio il lungo viaggiare in Italia alla ricerca delle architetture del passato portò a pensare che "l'architettura è il
gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce": Le Corbusier aveva individuato proprio nel rapporto tra chiari e scuri, luci e ombre l'elemento indispensabile per dare vita
all'architettura.
Nelle straordinarie foto di questa mostra gli edifici sembrano vivere una loro vita metafisica ed enigmatica perché creati dalla luce stessa e isolati come muti testimoni del tempo.
Talvolta Tatge gioca con i suoi personaggi: una bicicletta abbandonata su un albero acquista la nobiltà di una rovina (Bicicletta bianca 2007), un portale maestoso abbraccia la banale
stratificazione di manifesti strappati (Colonne di Sangallo, 1979), un silos drammaticamente antopomorfo sorride ammiccando come in un quadro surrealista (Silos, 2004).
Solo uno straniero poteva indagare con tanto equilibrio e affetto le glorie e le vergogne del nostro paese, senza mai voler criticare, ma creando una sottile ironia ciò che vede: il fascino di un
edificio rurale trasformato in discarica (Due bianchi, 1999), la solitudine di un frigorifero abbandonato in un prato accanto a un'antenna (Orto trasmettitore, 2007), il
silenzio hopperiano di uno spazio dove il tempo si è fermato (Perugia 1983).
Silvia Cangioli
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MOSTRE IN CORSO